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Nel segno del dramma il Festival di Venezia

Di Paola Della Torre

Il Festival di Venezia numero 72 si è aperto con un film kolossal in 3D: una scelta controcorrente che punta più sullo spettacolo e sull’intrattenimento, che sull’autorialità. “Everest” è il racconto della spedizione di alcuni scalatori che perderanno la vita sulle cime della montagna più alta del mondo. Una storia vera, giocata sul filo della tensione, e che si muove su due livelli: le vicende, sempre più drammatiche, che travolgono gli scalatori, e l’attesa disperata delle mogli e delle famiglie degli stessi che, a casa, aspettano notizie.
Il Festival, inizia, dunque, sotto il segno del dramma e della realtà e non a caso, i due film successivi, uno presentato in concorso e l’altro fuori concorso, proseguono su questa via: si tratta di “Beast of no nation” e “Spotlight”, entrambi incentrati sul tema dell’infanzia negata, perché sfruttata o violata.
Il primo racconta l’odissea del piccolo Agu che cercando di fuggire alla guerra civile che dilania il suo Paese finisce per essere catturato da un battaglione di ribelli guidati da un carismatico Comandante. Che invece di ucciderlo, come fa sbrigativamente con i prigionieri, decide di arruolarlo e iniziarlo alle regole della guerra. L’apprendimento passa attraverso la gavetta, il battesimo delle armi, la prima uccisione, fino alla scoperta del vero volto del Comandante e degli interessi che si nascondono dietro gli appelli roboanti alla rivolta. Un film che punta sulle immagini scioccanti, con gusto pulp, pieno di scene violente e sanguinarie. Il risultato è deludente: sembra di assistere all’utilizzo di immagini kitsch che sfruttano il tema dell’infanzia umiliata per sconvolgere lo spettatore, senza nessun rispetto per il dramma messo in scena.
Molto più equilibrato, anche se con qualche difetto, il lavoro di Thomas McCarthy che ha ricostruito il lavoro svolto dall’unità investigativa del Boston Globe (chiamata appunto “Spotlight”) che nel 2001 ha smascherato una serie di abusi sessuali compiuti a Boston da preti cattolici. Come ha scritto Alessandro Zaccuri su Avvenire: “In linea di massima, quando Spotlight racconta qualcosa, lo racconta con esattezza. Ci sono omissioni (non si fa cenno, per esempio, alle linee guida sugli abusi sessuali del clero che la Conferenza episcopale statunitense aveva promulgato già nel 1992 e che molte diocesi avevano prontamente applicato) e qualche occasionale travisamento, come quello relativo al destino di Law (il vescovo che coprì ogni abuso). Ma l’assunto generale è tutt’altro che ostile al cattolicesimo e alla stessa Chiesa. Se ne è avuta conferma durante la conferenza stampa di ieri, nel corso della quale il regista, rispondendo alla prevedibile domanda sul nesso tra celibato sacerdotale e pedofilia, ha escluso ogni sbrigativo automatismo”. Da parte sua l’attore Mark Ruffalo – che in “Spotlight” impersona l’intraprendente reporter Michael Rezendes – sottolinea che a Boston non era solo la Curia a sapere che cosa stesse succedendo: “Dalla polizia alle istituzioni scolastiche tutti, in un modo nell’altro, facevano finta di non vedere”.
Una pellicola girata quasi fosse un documentario, sullo stile giornalistico di “Tutti gli uomini del presidente”, che ha il merito di non essere un “film a tema”, ma che cerca di ricostruire una vicenda purtroppo vera e dolorosa nella maniera più veritiera e rispettosa possibile. Certo, viene da chiedersi perché i cineasti scelgano sempre storie che riguardano abusi o malefatte compiute da membri della Chiesa cattolica, laddove la cronaca ci racconta che anche da tante altre istituzioni, religiose e non, si sono avute dolorose vicende dello stesso tipo. Sembra di essere di fronte ad un certo accanimento mediatico. Comunque ben venga sempre il buon cinema d’impegno civile, che non procede per tesi e posizioni ostili già assunte, come avviene con “Spotlight”.

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