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Nell’artigianato italiano spazio alle imprese e ai lavoratori stranieri

Di Luigi Crimella

Il tema dell’immigrazione si sta imponendo sempre più come uno dei fattori centrali delle politiche nazionali ed europea. Schiacciati tra il dovere umanitario (e cristiano) dell’accoglienza e la mancanza di posti di lavoro per via della crisi, l’opinione pubblica s’interroga se sia giusto continuare ad aprire le nostre porte al “popolo dei barconi”. Un sistema per verificare se l’accoglienza (e fino a che punto) sia o meno un criterio valido è quello di andare a vedere cosa succede nel mondo del lavoro e tra gli imprenditori stranieri giunti in Italia anni o addirittura decenni fa. Lo abbiamo fatto con l’aiuto della Confartigianato, la principale organizzazione degli artigiani in Italia. Il suo segretario generale Cesare Fumagalli ha messo a disposizione del Sir l’aiuto del proprio ufficio studi, offrendo alcuni dati molto interessanti sul peso dell’occupazione straniera, la sua distribuzione e qualità, e naturalmente il ruolo che vi giocano le imprese artigiane guidate da stranieri. Ne esce un quadro variegato, con l’Italia che ha 2 milioni e 275mila 700 lavoratori stranieri, che sono pari al 10,4% del totale degli occupati. La nostra quota è ben superiore al 7,1% medio della Unione europea e siamo battuti, quanto a incidenza di stranieri sul totale, solo da Irlanda (15,1%), Austria (12,9%), Spagna (10,7%). In valori assoluti la Germania ospita 3,6 milioni di lavoratori stranieri, il Regno Unito 2,87 milioni, quindi veniamo noi con 2,27 milioni e di seguito la Spagna con 1,8 milioni e la Francia con 1,36 milioni.

Il caso delle 250 imprese artigiane cinesi di Prato. Mentre si conferma che l’occupazione straniera in Italia aumenta molto più di quella italiana (nel 2014 +3,8% rispetto a +0,3%), anche il numero delle imprese a conduzione straniera appare considerevole: sono in tutto 476.033, vale a dire il 9,2% del totale, con punte a Prato del 27,4% (quasi 1 su 3), Firenze (15,5%), Trieste (15,4%), Roma 14,4%. Tra gli artigiani, le imprese rette da stranieri sono 176.715, cioè il 12,8% del totale delle aziende artigianali del paese (che in tutto sono circa 1,4 milioni). Le altre 300mila sono prevalentemente imprese commerciali, della ristorazione e dei servizi. Confartigianato nazionale ha segnalato al Sir alcuni casi, per sottolineare l’importanza dell’integrazione. Il primo è quello di Prato, dove la locale associazione artigiani lo scorso 17 giugno, ha stretto un accordo di collaborazione con la “Associazione Abbigliamento Prato Cina” per gestire e risolvere i problemi comuni delle aziende pratesi e cinesi. Come spiega il vice-direttore Enrico Nucciotti, “abbiamo favorito la nascita di questa nuova realtà, cui hanno aderito ben 250 delle circa 500 aziende del pronto-moda cinese di Prato, per incrementare la sinergia tra Confartigianato e gli imprenditori cinesi, con tutti i problemi che debbono affrontare. Si tratta di imprese rette o create dalla ‘seconda generazione’ di cinesi, con i quali affrontiamo i problemi tipici di ogni impresa: sicurezza, burocrazia, sviluppo imprenditoriale”. Nucciotti aggiunge che analogo percorso è avvenuto con “Associna”, l’associazione culturale nazionale cinese delle “seconde generazioni”, tipico il caso di Milano dove il percorso è molto avanzato.

L’ingegnere cinese e la marocchina sotto protezione. Proprio in Lombardia troviamo il secondo interlocutore. È l’ing. Francesco Wu, giovane imprenditore cinese componente del Consiglio direttivo di Confartigianato Lomellina. Arrivato dalla Cina a 8 anni a Milano, dopo la laurea in ingegneria ha lavorato per aziende elettromeccaniche, ha poi rilevato con il fratello un ristorante di cucina italiana a Legnano ed è impegnato in ambito associativo sia in Confartigianato, sia come presidente dell’“Unione Imprenditori Italia Cina”. Wu racconta il suo percorso d’integrazione, giunto oggi all’animazione socio-culturale in contatto con il Consolato della Cina, che considera Wu e i suoi amici del Consiglio direttivo dei veri e propri “mediatori” culturali con la numerosa comunità cinese della Lombardia. “Tra l’altro – spiega – l’esperienza religiosa è significativa. Quattro su dieci del direttivo siamo cristiani, di cui tre cattolici. E questo ci offre una motivazione in più per spingere sulla integrazione dei nostri soci, che sono circa 300 aziende”. Molto significativa e toccante anche la testimonianza di una giovane imprenditrice artigiana, questa volta italiana: Nikla Da Ros, 33 anni, figlia e nipote di imprenditori che gestisce a Limbiate una propria azienda operante nell’estrusione di materie plastiche. Nel suo caso, è stata segnalata perché su 11 dipendenti dell’azienda da lei avviata pochi anni fa ne ha assunti tre stranieri: uno del Bangladesh, un albanese e una ragazza marocchina di 22 anni che – spiega – “ha subito violenza domestica, è scappata da un matrimonio combinato dalla famiglia e che ho assunto perché le stava per scadere il permesso di soggiorno. Senza un lavoro sarebbe dovuta rientrare al suo Paese, subendo le ritorsioni della famiglia e rischiando la vita”. La giovane imprenditrice aggiunge: “Mi stupisce che il mio gesto sia definito ‘grande’. In realtà ho voluto offrire a questa ragazza una opportunità di salvezza, e credo che molti lo avrebbero fatto stando al mio posto”. L’immigrazione – come si vede – sta generando fattori di crescita, sia sociale ed economica, sia di fraternità concreta, anche di tipo organizzato. Si tratta di aspetti indubbiamente positivi.

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