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Congo, strage di innocenti dimenticata

Davide Maggiore

È una strage lenta e quasi sconosciuta fuori dai territori in cui avviene. L’ultimo a denunciarla è stato Gilbert Kambale, che guida la società civile della provincia del Nord-Kivu, nell’est della Repubblica Democratica del Congo: dallo scorso ottobre, ha ricordato, sono “oltre 400” i morti dovuti ad attacchi all’arma bianca contro civili nel territorio di Beni. Una carneficina contro cui né le forze regolari delle Fardc (l’esercito congolese) né gli uomini della Monusco (la missione Onu dispiegata sul posto) sembrano, per ora, poter fare qualcosa.

Rischio fame. Dietro a queste morti ci sono tensioni locali o un’altra fase del conflitto che da ormai quasi vent’anni attraversa l’est della Repubblica? Difficile a dirsi anche per chi con quel contesto ha familiarità, come i missionari presenti da anni nell’area. “In passato questa zona era stata relativamente risparmiata dalla guerra, era principalmente l’area di Goma ad avere problemi, ma ora i gruppi armati si sono spostati più a nord e stanno creando il panico: difficile dire quanti siano o chi siano” i responsabili degli attacchi, testimonia ad esempio padre Eliseo Tacchella. Missionario comboniano, il religioso è in Congo dal 1989 e vive a Butembo, sede della diocesi che comprende anche Beni, a oltre 300 chilometri da Goma. Attorno al capoluogo della provincia si erano concentrati negli ultimi anni i combattimenti tra truppe internazionali, esercito regolare e varie milizie composte da ribelli locali o stranieri. Proprio ad alcuni di questi ultimi, gli ugandesi dell’Adf-Nalu, il governo attribuisce la responsabilità dei massacri di Beni. A caderne vittima sono cittadini comuni, spesso colpiti nel momento in cui stanno dirigendosi verso le terre che coltivano per vivere. “La gente non sa dove trovare aiuto – racconta a questo proposito p. Eliseo – quindi ormai si rassegna a quello che sta succedendo: si cerca di non andare nei campi o in luoghi pericolosi, sapendo che, se pure ci sono azioni da parte dello Stato o di altre forze queste non danno risultati”. I rischi dell’inerzia, dovuta anche a disaccordi recenti tra la missione internazionale e le autorità congolesi (accusate di aver messo al comando di alcune campagne contro i ribelli generali che si sarebbero macchiati di violazioni dei diritti umani), non riguardano solo il piano – pur fondamentale – della sicurezza. “Anche dal punto di vista alimentare si stanno creando grossi problemi per quanto riguarda il mantenimento delle persone, che non riescono più a raggiungere i loro campi”, prosegue il missionario. “Il rischio – denuncia – è quello della fame: in alcuni posti non si riesce più ad andare e altri sono già occupati”. Il problema, a suo parere, va considerato “a lungo termine, perché gli effetti si sentiranno anche nel futuro: se quest’anno non si riesce a seminare, l’anno prossimo non si mangerà”.

Solidarietà diffusa.
La prospettiva di un’altra emergenza minaccia dunque il territorio che già si trova a gestire una questione complessa: quella degli sfollati interni. A metà dicembre, quando l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Unhcr) ha diffuso i dati in suo possesso, circa 88mila persone avevano lasciato le proprie case. “Vivono in condizioni disperate e costantemente nella paura”, aveva affermato in quei giorni il portavoce dell’agenzia umanitaria, Adrian Edwards. A prendersi cura dei fuggiaschi, offrendo loro almeno un riparo, erano state anche molte istituzioni religiose, mettendo a disposizione anche le chiese. La risposta all’emergenza ha poi messo in luce anche il forte senso di solidarietà degli abitanti del luogo. “Anche qui a Butembo – spiega p. Eliseo – ci sono già 3mila rifugiati ospitati da famiglie di parenti o amici: la Chiesa sta lavorando per dare loro sostegno”. Alla mobilitazione della società civile, però, ricorda il missionario, dovrebbe corrisponderne anche un’altra: quella delle istituzioni, non solo locali. “Non possiamo continuare a vivere nel terrore – nota – e ad aspettare che siano mantenute le promesse: ci sono soldati regolari e caschi blu dell’Onu ovunque, ma la loro azione è assolutamente marginale”, anche per via dei limiti del mandato della forza internazionale. Il rischio più grande, però, conclude il sacerdote “è che su questi fatti cali il silenzio”, come spesso avvenuto nel corso del conflitto congolese, che dal 1996 ha provocato, a seconda delle stime, tra i 5 e gli 8 milioni di vittime.

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