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Dopo 70 anni, resistenza, il ruolo dei “ribelli per amore”

Angelo Paoluzi

C’è chi dice: Resistenza, roba del passato. Non è poi tanto vero se, oltre alle iniziative istituzionali, in numerose parti d’Italia e in differenti ordini di scuole docenti e alunni hanno organizzato incontri per ricordare i settanta anni dalla conclusione della guerra in Italia con quel grande evento che fu la rivolta popolare del 25 aprile 1945 contro i nazifascisti. Semmai, sarà necessario mettere ordine nelle riflessioni storiografiche che sono state condotte, e che ancora si vanno facendo, per rettificare una lettura a lungo unilaterale dei ruoli che vi hanno svolto i vari settori della società nazionale.
Fu lotta di popolo spontanea contro una invasione nemica, sentita come arbitraria. Un generale tedesco, durante i nove mesi dell’occupazione nazista della capitale, esclamò irosamente: “Mezza Roma nasconde l’altra mezza”. Niente a che fare con le analisi che influenti storici di matrice comunista dettarono per anni dalle cattedre universitarie (da Ernesto Ragionieri ad Alberto Asor Rosa) e da quella specie di bibbia laica che è stata la Storia di Einaudi, e secondo le quali la partecipazione marxista, con le sue giustificazioni ideologiche, sia stata la molla quasi unica che fece girare la ruota della Resistenza.
Una nuova generazione di studiosi – citiamo soltanto, fra i tanti nomi che è possibile fare, quello dello scomparso Pietro Scoppola – ha messo a punto strumenti di ricerca che stanno redistribuendo le carte della partecipazione e delle sue ragioni. Si era abusato, per esempio, di espressioni come “attendismo” o “zona grigia”, tali da permettere a una parte, che non aveva voluto rischiare nulla, di giustificarsi indicando la pretesa inesistenza di un silenzioso retroterra di quanti invece consentivano di sopravvivere ai protagonisti dei combattimenti sul terreno. La gente delle retrovie, peraltro, non era esente da rischi: come provano sia le attribuzioni di colpe e responsabilità individuali che portavano al carcere, alle torture, al campo di concentramento, alle esecuzioni, sia le stragi (alcune centinaia, spesso efferate) perpetrate dai nazifascisti contro popolazioni accusate di sostegno ai combattenti della libertà.
Altri hanno voluto contestare la legittimità della partecipazione del mondo cattolico alla lotta armata. Duemila caduti, duemilacinquecento feriti, diecine di riconoscimenti al valore su un complesso di partigiani fra i 60 e gli 80mila. Soltanto una parte, comunque, di una presenza difficilmente calcolabile ma sotterraneamente e capillarmente attiva, dalle parrocchie all’associazionismo ecclesiale, dall’Azione cattolica agli scout. Non si spiega altrimenti l’alto numero di sacerdoti uccisi, oltre 300 (191 dei quali per mano dei fascisti repubblichini), superiore a quelli tedeschi in dodici anni di nazismo.
Del resto in piena guerra La Civiltà Cattolica non temeva di affrontare l’argomento pubblicando, in due quaderni successivi – il 95 del 1944 e il 96 del 1945 -, l’intervento del gesuita Andrea Oddone che confermava come, nei confronti di una legge ingiusta, fosse sempre lecita la resistenza passiva. Che era legittimo diventasse attiva (secondo la risposta positiva di San Tommaso alla questione an liceat necare tyrannum, se sia possibile uccidere il tiranno) se fosse in pericolo la religione; bisognava deplorare – scriveva citando l’enciclica del 1890 Sapientiae christianae di Leone XII – “coloro che rifiutano di resistere per non irritare gli avversari”. La ribellione armata, ripeteva P. Oddone sulla scia del pensiero tomista, era doverosa nei casi in cui la tirannia fosse costante, manifesta e giudicata come tale dalla parte più sana della società, se fossero numerose le probabilità di successo, se la situazione successiva si presentasse migliore di quella passata. Tutte condizioni che rispondevano alle circostanze del periodo in cui se ne scriveva.
C’è una fortunata definizione, “ribelli per amore”, per designare quei cattolici che ritennero di doversi mettere in gioco per la libertà di tutti. La coniò Teresio Olivelli, poi ucciso in un campo di concentramento per aver voluto difendere un compagno di prigionia angariato dagli aguzzini. Era contenuta nella famosa Preghiera del ribelle, quella che, in un’invocazione al Cristo, si concludeva “Se cadremo, fa’ che il nostro sangue si unisca al Tuo innocente e a quello dei nostri morti a crescere al mondo giustizia e libertà”. Sia detto in memoria della Resistenza.

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