In breve tempo i miliziani sono riusciti a penetrare nei primi 2 villaggi, facendo prigioniere decine di persone: “Fortunatamente circa 600 famiglie sono riuscite a fuggire verso Qamishly – spiega l’archimandrita Youkhana – ma siamo preoccupati per la sorte di coloro che sono tenuti in ostaggio. Conosciamo bene i metodi barbari dell’Is: ciò che più conta per noi, adesso, è che queste persone siano liberate il prima possibile”. “Purtroppo le chiese di Tel Hormidz e Tel Shamiram sono state già devastate e bruciate – continua Youkhana – la speranza è che i combattenti del Pyd e l’esercito siriano fermino l’avanzata dell’Is, così come confidiamo nel fiume Khabour, il cui livello delle acque costituisce un argine naturale all’avanzata dei terroristi”. Conferme arrivano anche dall’arcivescovo siro-cattolico di Hassaké-Nisibi, monsignor Jacques Behnan Hindo. “I terroristi – riferisce a Fides il presule – hanno preso decine di ostaggi, con l’intenzione forse di usarli per richiedere riscatti o per uno scambio di prigionieri. Ieri sera, alle 21.30, le milizie curde ci hanno detto di essere riuscite a riprendere Tel Hormuz, con l’aiuto dei battaglioni formati da cristiani siri. Ma non abbiamo ancora conferme”.
Secondo mons. Hindo, l’offensiva dei jihadisti ha messo in luce responsabilità e comportamenti deplorevoli da parte di diversi altri soggetti: “Voglio dire chiaramente – riferisce l’arcivescovo – che abbiamo la sensazione di essere stati abbandonati nelle mani dei miliziani dell’Is. Ieri i bombardieri americani hanno sorvolato più volte l’area, ma non sono intervenuti. Abbiamo cento famiglie assire che hanno trovato rifugio ad Hassakè, ma non hanno ricevuto nessun aiuto dalla Mezzaluna Rossa e dagli organismi governativi siriani di assistenza, forse perché sono cristiani. Anche l’organismo per i rifugiati dell’Onu è latitante”. La regione del Khabour conta 35 villaggi cristiani. Essi sono abitati dagli assiri che nell’agosto 1933 fuggirono dal massacro di Simele, commesso dalle forze armate dell’allora Regno d’Iraq e che provocò la morte di circa 3mila persone. La speranza di queste famiglie è quella di tornare un giorno nella loro Patria, in Iraq. Per questo gli abitanti del Khabour continuano a definire le loro abitazioni come “campi” e non come “villaggi” o “città”.