Il colore prima del blu


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La mattina è sonnolenza e il letto mi cattura. Il primo battito del mio cuore è per Anna. È per lei che mi alzo dal letto. Decido di scendere al ristorante e iniziare la giornata. La preparazione della sala inizia almeno un’ora prima del servizio. Occorre prevedere ciò di cui si avrà bisogno. Io e il signor Alfredo stiamo controllando il livello delle oliere.

‹‹Prima di iniziare una battaglia si devono affilare le armi,›› mi dice il signor Alfredo ridendo compiaciuto, ma la sua frase più che divertirmi mi mette ansia perché sento la tensione per l’avvicinarsi del momento in cui dovrò raccontare ad Anna la mia storia, e non mi sento ancora pronto per farlo. Tuttavia non posso guardarla negli occhi se non riesco neanche a dirle che fino a pochi giorni fa non ero nessuno, che non avevo desideri, speranze. Ora scopro di provare un sentimento nuovo e questo basta per giustificare la mia presenza in questo sputo di paese.

‹‹Ce l’ho un sogno adesso, signor Alfredo,›› dico.
‹‹Ah sì? E quale sarebbe?››
‹‹Non posso dirvelo. È un segreto, ma ho scoperto di averlo da tanto tempo. L’ho sempre avuto: la Barca dei desideri da oggi è più leggera!›› dico divertito.
‹‹Io invece sto bene così: che il mio sogno se lo tenga pure la barca. I sogni fanno solo soffrire.››

Tutti hanno un sogno, ma lo tengono segreto. Tenerlo segreto, però, è come non averlo e alla fine si dimentica. Invece i sogni vanno detti, perché a dirli ci si sente obbligati, poi, a realizzarli. Anche il signor Alfredo ha un sogno, ne sono certo, e ogni sigaretta che fuma è il tentativo di soffocare il respiro del suo cuore. Marta entra in sala agitando una lettera tra le mani: il figlio, Andrea, ha scritto di nuovo. È ansiosa di leggerla, ma il signor Alfredo dice che lo faranno dopo il lavoro. Prima che il signor Alfredo esca per sbrigare le solite commissioni, gli annuncio che nel pomeriggio devo incontrarmi con l’assistente sociale e non potrò fare il servizio della cena. È vero, ma devo anche uscire con Anna ed evito di dirlo al signor Alfredo perché sento che non capirebbe. Mi fa un cenno di approvazione con la testa mentre ha il capo inclinato per accendersi una sigaretta.

Si è presa i miei appunti. Legge. E non ha mai alzato lo sguardo verso di me. Io giocherello con una matita. La faccio passare tra un dito e l’altro. Poi la faccio tornare indietro. Il senso contrario mi rimane più complicato. A volte mi cade. Allora mi abbasso per raccoglierla. Si è spuntata, cadendo dritta. L’assistente sociale non fa una piega, neanche quando raccolgo la matita. Sbuffo. Spesso torna a rileggere le vecchie pagine, sfoglia freneticamente in avanti e indietro gli appunti. Ha una penna in mano e la appoggia alla bocca. Le sue labbra si fanno pronunciate in avanti, a tratti. Altre volte se le morde. Sento fischiettare Giuà lo spazzino. Mi volto per cercarlo, ma non lo trovo. Il Pino bar è deserto. È un’ora, questa, in cui si torna dal mare. Tutto il resto è fermo.

L’assistente sociale si alza. Le tremano le gambe. ‹‹Tu e questa Anna vi state cacciando in guai seri! Ma cosa sono queste sciocchezze che andate facendo?›› mi dice decisa a voce alta.

La fisso sconcertato, poi mi guardo intorno sperando che non ci abbia sentito nessuno.

‹‹Adesso devo andare! Ma non posso tollerare altri tuoi comportamenti così pericolosi. Sia ben chiaro che se leggerò altre diavolerie del genere sarò costretta a… a…›› Prende la sua borsa e se ne va.
Mi lascia con una frase monca, segno della sua impotenza. Bevo un’aranciata che lei aveva appena sorseggiato. Torno a casa e mi preparo per uscire con Anna.

Il crepuscolo, sul nostro mare, ha il cielo grigio. La luna piena si staglia pallida tra le poche nuvole dipinte e a guardarla sembra una medaglia d’oro. Anna ed io ci accoccoliamo sotto il faro. I gabbiani ci passano davanti, indifferenti alla nostra presenza. Quando non ci baciamo restiamo in silenzio. La tengo stretta. Non mi muovo neanche. Ascolto il suo cuore con la mano e lentamente scendo sul suo seno. Lei lascia fare. Scosto la maglietta e la mano scivola dentro il suo décolleté, ora sento il petto nudo. Torno a baciarla. Quando siamo stanchi, mi allungo sulla roccia e lei si appoggia con la testa su di me. Sorride, e dice che le fa impressione il battito così potente del mio cuore. Poi mi bacia il petto e chiude gli occhi. Io le accarezzo la schiena. Affondo il naso nei suoi capelli e memorizzo il profumo del suo collo. Quando si accende il faro, scendiamo via. Claudio il guardiano ci viene incontro e inciampa per le scale. Mette il suo muso a un palmo dalla mia faccia e mi chiede: ‹‹Tu i vu ‘bbe a Cladì?››

Sergio sta tirando a riva la barca. La fa passare sopra dei rulli di legno. Sotto la pelle olivastra e rugosa i muscoli si induriscono di fatica. A mano a mano che la barca supera i rulli, li riprende e li rimette davanti per farla scivolare nuovamente su di essi. Anna, che viene dalla città, non ha mai visto un’operazione del genere. Salutiamo e andiamo al Pino bar. Le sedie in corda rossa di plastica sono morbide. Per sederci ne usiamo una sola e i nostri corpi si mescolano, nascondendo i rispettivi confini come il mare quando scivola dentro la sabbia della battigia. La prendo in giro perché ha la panna del gelato sul naso. Cerca di sporcare anche me. Io mi scanso. Ci sbilanciamo e cadiamo con la sedia. Alcuni turisti ridono di noi. Due signore del paese mi guardano sbalordite. Le saluto divertito e fuggo via tirando Anna per un braccio. La sento ridere. Vorrei correre all’infinito, così!

Ci rintaniamo nella via del nostro primo bacio. Riprendiamo fiato. Mi reggo tenendo una mano appoggiata al muro. Alzo la testa, incrocio lo sguardo di Anna e sbottiamo a ridere. Le pulisco il naso. Ci baciamo nel segreto del buio serale. Tremo di passione. Provo a toccarle di nuovo i seni, ma ora non vuole, mi scansa le mani. Sento vergogna per il gesto avventato. Mi scosto un po’ da lei. Ci sediamo sul gradino di un portone.

‹‹Non mi hai mai parlato dei tuoi genitori,›› mi dice all’improvviso.
Con il piede sposto dei sassolini sotto di noi, scovo una monetina, la raccolgo e la getto via. Colpisce un cassonetto dell’immondizia e il suono acuto si impossessa per un istante del silenzio della via. ‹‹Questa notte. Dopo che siamo stati al cimitero, ti porto in un posto.››
‹‹E dove?›› mi chiede, ma non rispondo più. Mi alzo, la sollevo con dolcezza e la accompagno fino all’Hotel Riviera.
‹‹Ci vediamo sotto la finestra della tua camera tra due ore,›› dico.

Torno al ristorante che il signor Alfredo sta già pulendo la sala. Mi saluta con la testa. Passo davanti a un tavolo. Tiro via due tazzine da caffè. Una è rovesciata. C’è una macchia nera sulla tovaglia. Porto via anche la tovaglia. Una coppia di anziani si avvicina alla cassa per pagare. Alfredo dà il resto e se ne vanno. Non c’è più nessuno. Pulisco il bar e vado in camera a riposarmi.

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