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A chi fa paura in Europa un motore di ricerca?

Di Rino Farda

Il Parlamento europeo la scorsa settimana ha votato una risoluzione non vincolante con la quale si chiede la separazione dei servizi di ricerca online dagli altri servizi commerciali. Si tratta di una vera e propria dichiarazione di guerra contro Google, il motore di ricerca più usato in Europa. Se fosse effettivamente applicata, infatti, una norma del genere metterebbe a repentaglio il modello economico stesso dell’azienda costruita da Sergey Brin e Larry Page: grazie ai “megadati” generati dalle nostre ricerche, si ottengono molte informazioni utili sugli utenti; questi dati vengono poi utilizzati per servizi di pubblicità e di marketing online, l’attività da cui Google fa derivare gran parte del proprio fatturato.

La qualità dei rapporti fra alcuni paesi europei e Google è in crisi da tempo.
Ora però la battaglia sta diventando più violenta e si sta allargando. I deputati europei infatti non nascondono più il loro disagio di fronte alle posizioni dominanti anche di altri giganti come Microsoft, Expedia o TripAdvisor. Nel frattempo Google ha dovuto fare le prime concessioni alla legislazione europea. La società è stata costretta dalla Corte di giustizia dell’Unione europea a rimuovere dai risultati di ricerca i link ai dati personali degli individui e le informazioni non attuali e irrilevanti.

Nuovo potere digitale. Resta il dato di fatto: il voto del Parlamento europeo sul potere dominante accumulato da Google nella Ue apre formalmente il dibattito sull’emergenza di un nuovo potere digitale, che crea squilibrio nel sistema delle relazioni sociali ed istituzionali. Si è aperta così formalmente la guerra dell’algoritmo. Anche i quotidiani italiani hanno cominciato ad accorgersene. Lo scorso 28 novembre Daniele Manca, vicedirettore del “Corriere della Sera”, ha firmato un editoriale dal titolo esplicito: “Noi nudi davanti a Google”. Un grande difensore del diritto liberale delle imprese, il periodico “Economist”, pochi giorni fa ha deciso di affrontare il tema senza censura. Sulla copertina campeggiava il logo di Google e il titolo domandava: “Il governo dovrebbe rompere il monopolio digitale?”.

L’Italia è più cauta. In Italia le posizioni sono più caute e, in qualche modo, anche più contraddittorie. Clamorosa è stata la presa di posizione di Maurizio Costa, presidente della Fieg. Il motore di ricerca fondato da Sergey Brin e da Larry Page, secondo Costa “dovrebbe pagare le tasse per la quota di profitti che realizza in Italia, come fa ogni imprenditore. Invece ha stabilito la sua sede legale in Irlanda e si permette un’elusione fiscale molto ingente”. Costa, a sorpresa, ha auspicato inoltre che il gettito fiscale che ne deriverebbe dovrebbe essere destinato “al miglioramento delle infrastrutture tecnologiche del Paese. Penso al Wi-Fi, che non è ancora diffuso come vorremmo. E alla banda larga, che pure stenta”. In Italia ci aveva già provato il deputato del Pd Francesco Boccia, con una proposta di legge per l’applicazione dell’imposta sul valore aggiunto per gli acquisti di servizi per via telematica. Subito ribattezzata “web tax”, l’iniziativa parlamentare di Boccia era stata però congelata. Ci aveva pensato lo stesso Renzi. Dopo aver vinto le primarie, nel suo discorso di insediamento a Bologna, aveva violentemente stigmatizzato in pubblico il progetto di Boccia. Ci hanno provato qualche settimana fa alcuni deputati di Sel a riproporre, in un’altra veste, l’iniziativa legislativa di Boccia. Apparentemente senza molto seguito. Il voto del Parlamento Europeo è comunque destinato a gettare benzina sul fuoco e a rinfocolare il dibattito.

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