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Il colore prima del blu – Puntata 3

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Mio padre ha lavorato tanto, e poi se ne è andato così come è arrivato. È morto giovane, senza un tatuaggio e senza calli. Eppure una vita, anche se non concede il tempo di segnare la pelle neanche da una ruga, può lasciare tante storie da raccontare al figlio seduto sulle sue gambe, la sera d’estate, in giardino. Prima che papà morisse non avevo mai provato a giustificare la mia presenza in questo mondo. Vorrei parlarne con il signor Alfredo, ma lui alle domande non risponde, neanche a quelle che riguardano il lavoro. Mi indica i tavoli prenotati: ‹‹Non stare con la testa fra le nuvole. Se vuoi imparare alla svelta questo mestiere devi ascoltarmi, ché le cose vanno dette una volta sola. Il lavoro non dà tempo alle ripetizioni.››

Due signori seduti al tavolo spizzicano il pane. Se sono venuti al ristorante di Alfredo è perché desiderano mangiare le sue specialità. Si dice “sei venuto al mondo”, ma in realtà io mi sento di esser stato portato al mondo. Per questo non so cosa voglio da questa vita, perché non sono come i due signori al tavolo che hanno deciso loro di venire qui. Nessuno dovrebbe chiedermi cosa desidero dalla vita perché io non sono venuto da solo, ma sono stato portato e quindi non desidero nulla.

 ‹‹Desiderate?›› dico segnando su un foglio il numero del tavolo.
‹‹Non limitarti a chiedere cosa vogliono. Devi proporre,›› mi dice Alfredo. Io guardo le sue scarpe, nere, di cuoio, sempre lucidate. Ho vergogna ad alzare la testa. Non sono bravo a fare questo mestiere, penso. Schiaccia la cicca dentro un posacenere in vetro, marrone.
‹‹Se non proponi, rischi che ti chiedano qualcosa che non abbiamo. Questi poveri cristiani che vengono qua hanno bisogno di un cameriere che propone. È come se gli facessi una promessa e, quando qualcuno ti fa una promessa, tu, poi, ti aspetti che la mantenga.›› Mi dice mettendo in bocca un’altra sigaretta.
Sembra che abbia terminato il rimprovero. Io elaboro le sue parole e mi convinco che se non mi aspetto nulla dalla vita è perché nulla mi è stato mai promesso.
Alfredo torna indietro. Stringe la sigaretta fra due dita. La punta verso di me e, risoluto, precisa: ‹‹Anzi più che proporre, devi decidere tu per loro. Se li lasci fare non ne esci più, perché, appena decidono, hanno già cambiato idea.››
Torno a guardare in silenzio le sue scarpe. La sigaretta cade a terra. Lui, indifferente, la spegne con il tacco.
‹‹Linguine allo scoglio pronte!›› urla Marta tra i fornelli.
Alfredo prende un tovagliolo, lo allunga e mi dà una leggera frustata sul sedere. ‹‹Dai! Torna in sala con le linguine! Sono per don Piero,›› mi dice ridendo. Faccio un salto e mi tocco la chiappa destra.
‹‹Alfredo! Che modi! Non sapevo di aver sposato un gorilla!›› urla Marta agitando un mestolo.
Lascio le linguine al tavolo di don Piero. È in compagnia di un sacerdote. Mi colpisce la sua barba bianca.
‹‹Dalle nostre parti non si mangiano linguine così buone,›› dice don Piero.
Non capisco se si stia rivolgendo a me o al sacerdote e così resto alcuni istanti immobile e zitto. Il sacerdote dalla barba bianca si gira per guardarmi, mi tolgo dall’imbarazzo con un sorriso di cortesia. Continuo a osservarli da lontano. Don Piero mangia poco e le sue mani si agitano nude e asciutte. L’altro ascolta muto e non mangia affatto.  

 

L’azzurro della sirena si staglia sulla bianca facciata di casa, si perde sulla lunghezza della via, poi sbatte sul volto dell’assistente sociale.Mia madre ha avuto un attacco di panico. Non è la prima volta. Scendo dalla bici, mi tolgo il papillon da cameriere e mi avvicino all’ambulanza. Due infermieri in tenuta arancione trasportano una barella, mi passano di fianco e intravedo il volto di mia madre. L’assistente sociale mi prende la mano. Provo vergogna per quel gesto. Sento la mia mano grande come quella di un uomo, ma liscia e umidiccia come quella di un bambino. A fatica si accende un lampione che scalda i colori della via. L’ambulanza si allontana silenziosa e tutto resta muto intorno a me. L’assistente sociale mi guarda negli occhi, so già che non vuole farmi dormire da solo, ma io non voglio nessuno in casa con me. Distolgo lo sguardo dai suoi occhi fragili e titubanti. Chiudo il portone.

Dalla finestra della mia camera osservo l’assistente sociale che cammina su e giù per la via. Ogni tanto alza lo sguardo verso di me. Quando spengo la luce, se ne va. La parola casa mi suona vuota ormai. Un tempo, a parlare di casa, tenevo l’immagine di mio padre sul divano che mi leggeva una favola e mia madre che mi stringeva forte al petto. Oggi la casa è un tetto sotto cui dormire.

Alessandro Ribeca: