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Sulle ”droghe leggere” occorre distinguere fra l’errore e l’errante

Di Francesco Rossi
Ricalcolo della pena per chi è stato condannato per “piccolo spaccio” di droga. Lo ha deciso, con una sentenza, la Cassazione, come conseguenza della sentenza della Corte Costituzionale che, il 12 febbraio scorso, ha fatto tornare in vigore la legge Jervolino-Vassalli, sancendo l’incostituzionalità di alcune norme della Fini-Giovanardi. Secondo le prime stime dell’amministrazione penitenziaria, sono tra i tremila e i quattromila i detenuti che potenzialmente potrebbero beneficiare della sentenza della Cassazione, dopo la quale, secondo il guardasigilli Andrea Orlando, “l’uscita dall’emergenza carceri sarà più rapida”.
Non è liberalizzazione. “Non cediamo alla tentazione di pensare a una liberalizzazione surrettizia ed evitiamo di usare il diritto penale per esigenze di messaggio sociale”, esordisce Luciano Eusebi, docente di Diritto penale all’Università cattolica e membro della commissione per la riforma delle sanzioni penali, ricordando come spacciare droga sia comunque in Italia un reato punito pesantemente. “La Cassazione – annota – ha adottato un provvedimento naturale dopo la sentenza della Corte Costituzionale”, che, da parte sua, “non ha inteso prendere posizione sul problema delle droghe, ma ha fatto decadere la Fini-Giovanardi perché quella norma sugli stupefacenti era stata introdotta attraverso la legge di conversione di un decreto legge attinente una materia completamente diversa, ovvero le olimpiadi invernali di Torino”. Torna in vigore, quindi, la norma precedente (Jervolino-Vassalli) che “non è affatto per la liberalizzazione – chiarisce il docente – ma distingue tra situazioni di diversa gravità, con livelli sanzionatori differenti”. Oggi, perciò, si hanno tre reati distinti – con le rispettive pene – per fabbricazione e spaccio di droghe pesanti, per quelle leggere e per il caso di lieve entità. Quest’ultimo, in particolare, “consente di evitare l’esecuzione di una pena detentiva per persone che hanno essenzialmente bisogno di recupero”.
Servono percorsi di recupero. Il piccolo spacciatore, spesso, è un “emarginato sociale”, un tossicodipendente che cade nella rete dello spaccio per procurarsi i soldi per la “dose”. “Costoro – osserva Eusebi – finiscono per avere pene lunghe in funzione del fatto che viene addebitata loro l’associazione per delinquere. E così restano in carcere, mentre avrebbero bisogno di un serio percorso di recupero sociale, magari in comunità”. Ora, il penalista non crede che la sentenza della Cassazione porterà allo svuotamento delle carceri, e respinge l’immagine allarmista di migliaia di “pusher” a piede libero. “Avremo una rideterminazione della pena – afferma – per una fascia di persone che hanno commesso reati meno gravi. Ciò può portare a una riduzione della popolazione carceraria, ma soprattutto – rimarca – queste persone hanno bisogno di percorsi di carattere extradetentivo”.
Quale messaggio per i giovani? Preoccupazione rispetto al messaggio educativo che viene dalla distinzione tra droghe pesanti e leggere la esprime Ugo Ceron, psicologo e psicoterapeuta dell’Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII. “Con la legge Fini-Giovanardi – annota – si poteva parlare di sostanze psicoattive e di come condividessero elementi di pericolosità”, mentre l’appellativo di “leggere” dato ad alcune sostanze “porta a pensare che fumare cannabis o assumere altre droghe non sia poi così dannoso”. Ceron sottolinea l’importanza di pene alternative, come “la messa alla prova per maggiorenni con pene per spaccio lieve”, lamentando però le “poche risorse” stanziate per le misure alternative. D’altra parte, guardando all’assunzione degli stupefacenti, per Ceron “è una falsa distinzione quella tra leggere e pesanti”: c’è “un unico processo che si mette in campo, al di là delle sostanze usate” e, in ambito educativo, c’è bisogno di “porre un limite chiaro a quelle sostanze che vanno a influire sulle normali condizioni di vita e, per i più giovani – fino ai 18-20 anni -, pure sullo sviluppo del sistema nervoso”. È però anche vero, riprende Eusebi, che “non si crea educazione attraverso il messaggio della pena” e, se da una parte c’è l’adolescente che “si fa una canna” pensando non ci sia nulla di male, dall’altra ci sono persone – che indubbiamente hanno sbagliato – abbandonate a se stesse dietro le sbarre, e che invece avrebbero bisogno di un serio percorso di recupero.

 

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