C’era una volta, in un popoloso e vivace quartiere di una grande città, una squadra di basket di ragazzini delle elementari.
Non erano proprio dei campioni, ma nel corso degli anni (ora sono in quinta) avevano costruito un percorso di amicizia e di sportività.
Allenamenti settimanali, le prime partite, persino la prima autonomia di una trasferta fuori casa senza genitori. Tutti giocavano: capaci e meno dotati, alti e bassi, piccoli atleti e grassottelli. Non si vinceva così spesso, ma ci si divertiva sempre coniugando rispetto, lealtà, correttezza. Anche quando la medaglia era il più classico dei cucchiai di legno.
L’intento del “management” era far passare dei valori, non solo palle arancioni a volte troppo pesanti. Poi qualcosa è cambiato, anzi, tutto è cambiato. Turn over di allenatori: il nuovo arrivato, nel gestire i nostri piccoli eroi, ha deciso di puntare in alto. Quindi, via i meno in forma, via i meno bravi, via i non adeguati alla competizione. Selezione da squadra da serie maggiore perché solo così si vince il campionato delle squadrette.
Gli allenamenti vengono divisi: titolari fissi a una cert’ora e tutti gli altri confinati ad altri orari, con i più piccoli. A giocare le partite solo i più esperti, i non convocati lasciati a casa via sms. Già tutto questo sarebbe grave, ma le cose si complicano perché parliamo di ragazzini, spesso e volentieri sottilmente crudeli con i coetanei. E allora cominciano gli sfottò, le alzate di spalle, la divisione gerarchica tra i giocatori e i rimpiazzi anche al catechismo. Al momento non c’è un lieto fine, solo l’amarezza dei genitori e l’umiliazione degli esclusi che, man mano, abbandonano il campo.
Ci sono cose che non vorremmo mai leggere, quando si parla di un oratorio parrocchiale…

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