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Ma non ci sono più le piazze di una volta

Di Marco Bonatti

Mentre a Maidan, a Kiev, il popolo faceva cadere il “regime” del presidente, sulla piazza virtuale dei 5 Stelle italiani un altro popolo decideva di rovesciare alcuni dei propri rappresentanti, votando una specie di plebiscito. Il presidente Yanukovych era stato eletto democraticamente, come pure secondo le regole democratiche erano andati in Parlamento i deputati e senatori grillini poi cacciati.
È suggestivo raccontarsi la storia attraverso le piazze che l’hanno fatta. Prima di Maidan ci fu Taksim a Istanbul e prima ancora Tahrir al Cairo, e le piazze di Tunisi e Tripoli. E Zuccotti Park con gli occupanti di Wall Street, e Tel Aviv, e Plaza Mayor con gli Indignados… Andando indietro nel tempo s’incontra quasi subito il buco nero di piazza Tienanmen, con la brutalità asiatica che sceglie di massacrare senza esitazione un’intera futura possibile classe dirigente del Paese più popoloso del mondo. Passando per le piazze sovietiche del Primo Maggio, per quelle del Sessantotto o della ghigliottina parigina si risale facilmente fino al feticcio della “agorà” ateniese, dove piazza e potere democratico pare coincidessero: in una città-stato dove i “cittadini” erano qualche centinaio, mentre tutti gli altri erano schiavi o donne.
La piazza è il luogo privilegiato, e obbligato in certe svolte della storia, dove consenso o dissenso, rivoluzione o partecipazione democratica trovano lo spazio e il momento opportuni per una “spallata”, o per rafforzare chi è già al potere. Nei regimi totalitari come nelle democrazie il consenso di piazza è uno specchio che ingrandisce e conferma l’immagine che di se stessi hanno tanto i governanti quanto il popolo. Le adunate di piazza Venezia, come i comizi di De Gasperi o Togliatti ai Santi Apostoli condividono forme analoghe, al di là di ogni giudizio di merito.
L’opinione pubblica occidentale guarda con grande interesse alle piazze della protesta e della rivolta, per più di un motivo. Per noia, prima di tutto: in Europa (e in America) per raccontare la politica e l’attualità di casa nostra si rischierebbe, in molti giorni dell’anno, di ridurre l’informazione all’andamento del cambio tra dollaro e euro – o abbassarsi, come accade, ai livelli infimi della politica-spettacolo. Non abbiamo più nemici, dobbiamo cercarceli all’interno; oppure affrontiamo minacce reali, come il terrorismo, non attraverso le “armi” della cultura e della politica ma – più sovente – con i servizi segreti e la propaganda. I nostri governanti sono arrivati a mentirci (ricordate G.W. Bush e Tony Blair?) per poter dichiarare una guerra che non potevano giustificare diversamente.
Una seconda ragione che rende “interessanti” le piazze è che il racconto delle proteste e delle rivolte arriva in Occidente attraverso quei canali delle nuove tecnologie che oggi vanno per la maggiore, a cominciare dai social network. E anche questo è forse un modo, per l’Occidente, di confermarsi nella sicurezza che il “progresso” raggiunto qui è quanto di meglio ci sia al mondo, non solo per la tecnica ma anche per i contenuti di libertà, democrazia, diritti individuali che riesce a veicolare. Così fa molto scandalo che alcuni Paesi cerchino d’imporre limitazioni all’uso della Rete; e fa meno scandalo che la stessa Rete venga usata per diffondere – dall’Occidente come dal resto del mondo – informazioni false che mirano appunto a distorcere la realtà presentando come “eroi della libertà” quelli che sono normali mistificatori assoldati dai servizi segreti quando non dalle mafie. Si ricorda il caso (giugno 2011) della “ragazza siriana” che inviava tweet sulla guerra a Damasco. Ma si trattava invece di un signore di Edimburgo, di cui non si è mai chiarito se fosse un bravo narratore di storie false e verosimili, o un “depistatore” di professione.
Nelle piazze, soprattutto in questi tempi di populismo, si mescolano nuvole di umori, informazioni e depistaggi, voglia di cambiamento, curiosità internazionali. Ma quasi sempre non è sulle piazze, né vere né virtuali, che le decisioni vengono prese e portate avanti (Parziale eccezionale locale: la marcia torinese dei 40mila – quella vera del 1980). Giusto a Maidan il nuovo governo ucraino, voluto a furor di popolo, ha poi proseguito il proprio lavoro chiudendosi nel palazzo, e facendo filtrare con molta prudenza le notizie sulle trattative con la Russia, i contatti con Stati Uniti e Unione europea – atti politici non più sottoposti al giudizio dell’assemblea. Così la piazza si conferma come una componente storicamente indispensabile nella vita delle democrazie, ma mai come l’unico luogo in cui le questioni si affrontano, si dipanano, si risolvono. Forse anche per questo in Occidente l’impatto della piazza e delle sue manifestazioni è sempre più debole, confinato nelle nicchie delle rivendicazioni di categoria.
Si è visto che non bastano cartelli e cortei a imporre correttamente alla politica e all’opinione pubblica i temi della cittadinanza e della sovranità popolare. E anzi, nell’epoca del flusso diffuso e continuo d’informazioni di ogni genere, gli “umori della piazza” rischiano di diventare una variabile fuori controllo, sterile e pericolosa. Vale per le piazze fisiche come per quelle virtuali: dove i vari sondaggi, che pure a volte sono all’origine di decisioni clamorose e importanti, sono ben lontani dal garantire qualunque parvenza di credibilità politica e istituzionale (Vale, persino, per le elezioni, sempre invocate da chi si illude di avere canali e sondaggi favorevoli). Ma quando una minoranza degli elettori di un movimento si esprime su Internet, senza alcun sistema di controllo pubblico, prestabilito e condiviso, come si fa a dire che quella è “volontà popolare” democraticamente espressa? O forse dovremmo rivedere i parametri stessi delle nostre democrazie, e accettare che la partecipazione politica ed elettorale sia solo uno dei modi in cui si possono esprimere cittadinanza e sovranità?
E infine c’è un’altra domanda, di sicuro non pertinente: che cosa possiamo davvero “imparare” dalle piazze? I precedenti, per i cristiani, obbligano a riflettere: all’inizio della nostra storia c’è la spianata della fortezza Antonia a Gerusalemme, dove Ponzio Pilato si affaccia per chiedere al popolo: “Chi volete libero, Gesù o Barabba?”.

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