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Lavoro ai giovani è tempo di semina

Di Nicola Salvagnin
Un’indagine di Coldiretti “scopre” che tre quarti di chi ha meno di 35 anni vive ancora con mamma e papà. Sottinteso: sono sostenuti economicamente dalla famiglia, da soli non ce la fanno. E la generazione successiva? Peggio mi sento: a fine 2012 l’Istat certificava che un milione 346mila ragazzi tra i 15 e i 29 anni non stava cercando un lavoro né stava studiando: una cifra cresciuta nel corso del 2013. Insomma non fanno nulla, non spediscono più curriculum (due su tre), non credono nel merito ma nella raccomandazione (otto su dieci), sono particolarmente scettici che i percorsi di studio siano il giusto viatico al lavoro. Hanno torto?
Non è un fenomeno di costume, ma una vera e propria bomba su cui siamo seduti. Se tutte le giovani generazioni non hanno reddito (sufficiente) né prospettive, significa che il nostro futuro non potrà che essere nero. Niente soldi per il welfare, niente soldi per il sistema previdenziale, niente soldi per fare famiglia e figli (a proposito: anche chi ce l’ha, spesso si fa aiutare economicamente dai genitori).
Il declino demografico, economico, sociale appare inevitabile se non si inverte la rotta. Decisamente e subito. Il dramma nel dramma, poi, è che l’Italia è nettamente spaccata in due. Il Centro-nord è in difficoltà; per il Sud e le isole siamo già probabilmente al punto di non ritorno. Se i giovani completamente inattivi sono 13 su 100 in Trentino, e 16 in Emilia, in Sicilia sono quasi il 40 per cento. Considerando che tra gli “studenti” ci sono anche molti “parcheggiati”, il dato è ancora più drammatico.
Siccome però i posti di lavoro non si creano con la bacchetta magica, né si può ingrossare senza senso e soldi la schiera dei dipendenti pubblici (ricordate i 100mila assunti di bertinottiana memoria?), bisognerà lavorare partendo da zero. Cioè creare quelle condizioni per cui un campo oggi semi-arido possa tornare a dare frutti.
La globalizzazione ha spostato milioni di posti di lavoro dall’Occidente al resto del mondo, soprattutto in Asia. Ciò grazie a due condizioni: costo del lavoro più basso e meno tutelato; la sostanziale indifferenza delle nostre classi politiche. Oggi paghiamo il conto, ma non è vero che lo stiamo pagando tutti in egual misura. La Germania ha saputo trovare contromisure efficaci (grazie soprattutto all’ex cancelliere Schroeder); la Gran Bretagna, l’Irlanda e oggi pure la Spagna hanno saputo reagire. Solo Francia e Italia – i Paesi più “ingessati” politicamente e socialmente – sono rimaste al palo.
Quindi guardiamoci intorno, copiamo le esperienze positive e collaudate: semplificazione contrattuale, promozione del part time (in Italia incredibilmente penalizzato), calda e fattiva accoglienza delle aziende estere che vogliano investire, ponti d’oro a quelle italiane che vogliano tornare a produrre qui dopo aver traslocato altrove. Reale “bonifica” dei territori più bisognosi di lavoro, che vanno pure dotati di infrastrutture materiali e telematiche adeguate, oltre che di commissariati e Procure. E utilizzo di intelligenza, che è gratis e abbondante tra gli italiani: basterebbe un piano nazionale di smaltimento e recupero dei rifiuti – fatto come a Copenhagen e non come a Palermo – per ottenere posti di lavoro, risparmi (profitti) notevoli, minore inquinamento, minore criminalità.
Forza dunque, è tempo di semina. Almeno proviamoci, prima di arrenderci al destino “cinico e baro”. E alla nostra accidia, quella sì da record.
Categories: Economia Società
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