Riproponiamo questa bella riflessione

Pochi giorni fa rileggevo (era stata una lettura giovanile e avevo ben altra consapevolezza) un racconto di Hemingway nel quale un personaggio si rivolgeva al nulla, nada lo chiamava, e questo nulla era Dio.

Si tratta di un cameriere anziano. Discute con il collega giovane perché vuole sbrigarsi a chiudere il locale. L’anziano invece vuole restare aperto ancora un po’: il loro compito è donare luce a chi vaga nella notte alla ricerca di un posto pulito e ordinato come il suo bar, spiega. Il cameriere giovane però non ci sta. Lui ha una moglie che lo attende a casa: ha fretta. Se l’attesa ci dona speranza, l’essere attesi ci dona amore, ci dona un senso a quello che facciamo. Niente più di una famiglia può esprimere al meglio la gioia di sentirsi l’atteso. Eppure non basta perché ciò che più conta per ogni uomo è la risposta a un intimo desiderio, un desiderio di infinito al quale da soli non siamo capaci di rispondere.

Mentre faccio questa lettura mi capita di ascoltare anche l’ultimo singolo di Jovanotti e percepisco una comune consapevolezza: ci siamo evoluti, abbiamo fatto mille scoperte, certo, eppure “ho questo vuoto tra lo stomaco e la gola, voragine incolmabile”. Nulla può colmare questo vuoto, soprattutto non posso riempirlo da me. Per dirla alla Jovanotti: “nessuno si disseta ingoiando la saliva”. C’è la consapevolezza che solo qualcosa fuori da me può dissetarmi. Solo un Tu.

Tornando al nostro cameriere anziano, alla fine si convince e chiude il bar. Però è ancora presto e se ne va gironzolando nella notte, alla ricerca di altri locali, nonostante siano convinto che solo il suo è un buon locale perché gli altri sì, saranno ben illuminati, ma non sono altrettanto puliti e ordinati. Non basta un locale ben illuminato, deve essere anche pulito e ordinato, dice. Con queste riflessioni si accorge di avere paura, paura di un vuoto, del nulla, di una promessa non esaudita. Così si rivolge al nada. “Nada nostro”, dice. C’è un controsenso in questa espressione che lo stesso autore ammette descrivendo un sorriso amaro sul volto del personaggio, perché in fondo rivolgersi a qualcuno è già un riconoscimento di esistenza: puoi anche chiamarlo nulla, ma così facendo stai già affermando che Egli è. Lo sfogo si conclude con “liberaci dal nada” e questa volta quel nada non sostituisce più la parola Dio, ma la parola “male”. Questa richiesta finale, uscita quasi per sbaglio dalla bocca del cameriere anziano non è altro che un grido: liberaci dal male, da questo nulla, da questo vuoto. Dai risposta a questa mancanza, a questa sete, perché la mia saliva non mi disseta!

Eppure, il cameriere, nonostante questo grido finale, non sa trovare la strada per uscire dal nada, non si accorge che c’è bisogno di un Tu. Certo, dice che occorre una luce che illumini bene, però dice anche che non gli basta. Non ha bisogno solo di luce, ma anche di pulizia e ordine. Anzi, questa luce non solo non gli basta, ma addirittura diventa un problema perché la luce ci mostra la realtà, ci mostra ciò di cui siamo fatti e inevitabilmente illumina anche lo sporco della realtà. Se non accettiamo questa conseguenza, se non accettiamo l’imperfezione della realtà, le nostre debolezze, i nostri difetti, la crisi, i disagi, le malattie, la solitudine, l’indifferenza, non possiamo accogliere la luce. Se la nostra pretesa è una realtà pulita e ordinata, non abbiamo scampo: l’unica certezza diventa il nada.

Non abbiamo scampo perché non possiamo soffocare questo desiderio di cui siamo fatti, perché non possiamo far finta di non avere questo vuoto tra lo stomaco e la gola, perché altrimenti la vita diventerebbe tormento, proprio come il cameriere anziano che cerca di ingannarsi liquidando il tutto e concludendo con un “forse è solo insonnia”.

E allora, qui, o si ascolta questo grido e ci si mette in attesa, o si cade nella disperazione. Qui e ora, occorre mettersi in attesa di qualcuno che ci salvi, che ci liberi dal nada, senza la pretesa che cancelli i problemi della vita, la fatica e la polvere della realtà. Qui e ora, occorre mettersi in attesa di qualcuno che ci salvi, che ci liberi dal nada, perché ogni giorno sperimentiamo che non possiamo dissetarci con la nostra saliva e questa esperienza dovrebbe donarci una speranza, la speranza di un Tu che ci salvi. L’attesa così diventa ragione di vita, diventa sostegno, diventa gusto. Ed è proprio questa attesa di cui siamo fatti a donarci speranza perché questo desiderio non è altro che una promessa che ci è stata donata, è la risposta a un grido: liberaci dal nada, da “questa voragine incolmabile”.

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