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Metti l’arte e la cultura nel rating degli Stati

Di Marco Testi

La notizia resa nota dal “Financial Time” è di quelle destinate a fare rumore, e a far tremar le vene e i polsi ad alcuni: la Corte dei Conti ha citato per danni, calcolati in 234 miliardi di euro, tre grandi agenzie di rating, Standard & Poor, Moody’s e Fitch. Sarebbero colpevoli di aver declassato nel 2011 il debito sovrano italiano a livello BBB, quasi spazzatura, senza tener conto di un elemento basilare: la ricchezza dei beni storici, archeologici, architettonici, letterari, culturali, perfino filmici del nostro Paese. Il declassamento italiano avrebbe causato danni gravissimi alla nostra economia, con l’innalzamento dello spread, e allo stesso governo allora presieduto da Silvio Berlusconi che si dimise nel novembre del 2011.
Una tale cifra, e una accusa di questa gravità, hanno subito sollevato obiezioni. La prima è che la Corte dei Conti non può esprimere giudizi sull’attività di agenzie esterne, ma solo riferirsi alle attività economiche interne; non è così, risponde la controparte: quell’errore di valutazione sul nostro rating ha causato una ricaduta negativa sul debito pubblico e sulla stessa economia italiana, ivi compresa l’occupazione.
In realtà questa mossa della Corte dei Conti è sì clamorosa, ma non è la prima che ha come bersaglio le agenzie di rating: lo scorso anno il pubblico ministero di Trani aveva chiesto il rinvio a giudizio di alcuni dirigenti di Standard & Poor e di Fitch per aver fornito notizie distorte sulle iniziative di rilancio economico intraprese allora dal governo con la conseguenza di un danneggiamento della nostra economia.
Clamori a parte, queste due azioni vanno nella direzione che da tempo alcune fonti di stampa, tra cui il Sir, auspicano, vale a dire la tesaurizzazione di un patrimonio culturale e artistico unico al mondo.
L’arte italiana, da quella arcaica e di età repubblicana passando per il medioevo e arrivando a Rinascimento e a Ottocento, i suoi siti archeologici e naturalistici, le chiese, i musei statali e non, sono dei beni che pochi possiedono, in grado, se ben gestiti, di spostare flussi turistici – e ricchezza – impressionanti. Se il turismo interno tende a diminuire per la crisi economica, quello dall’estero tende ad aumentare, e questo i signori del rating lo sanno bene. Probabilmente non sono abituati a mettere nella voce “utili” la storia, la bellezza, l’arte, la letteratura, in poche parole lo spirito della terra, che non è fatto solo di valuta e di azioni. E questo, lo sosteniamo da anni, è un errore gravissimo che non lascia le cose come sono, ma danneggia l’economia delle nazioni.
Oltretutto, le tre più grandi agenzie di rating da sole detengono il 95 per cento del mercato per i giudizi di rating, per cui il loro giudizio è praticamente inappellabile, e per questo ancora più pericoloso. Anzi, i maligni affermano che esse si dimostrano in genere particolarmente tenere verso alcune potenze mondiali e ostili verso i poveri del pianeta. E, lo abbiamo visto, prendono cantonate che costano care, come nel non aver saputo prevedere la bancarotta della Enron, il default argentino e altre disgrazie del genere.
Senza contare le accuse di conflitto di interessi, visto che sono società private con scopo di lucro e hanno partecipazioni su fondi e investimenti di livello planetario, annoverando dirigenti di banche e di multinazionali (per questo si veda “I signori del rating” di Paolo Gila e Mario Miscali, Bollati Boringhieri).
Detto questo c’è però da aggiungere che una casa attira gente se non cade a pezzi e se è ospitale. E questo potrebbe essere usato a difesa dalle suddette agenzie, che potrebbero opporre alla Corte dei Conti uno stato deplorevole di molti nostri beni: il personale addetto ai siti e ai musei è ridotto all’osso e forse a qualcosa di più; alcune realtà uniche al mondo come Villa Adriana sono minacciate da colate di 250mila metri cubi di cemento e rischiano la cancellazione dalla prestigiosa (e salvifica) lista dei monumenti patrimonio dell’umanità stilata dall’Unesco.
Nel 2011 la spesa pubblica destinata alla cultura è stata dell’1,1 per cento (l’Islanda per dirne una è al 7,4 per cento, la Grecia l’1,2). Frammenti cadevano dal Colosseo, monumenti collassavano a Pompei, l’incuria avvolge al nord e al sud importanti siti che sono conosciutissimi all’estero, ignorati – e abbandonati – da noi che dovremmo rimetterli a nuovo perché i biglietti di ingresso, la vendita di articoli collegati come libri, guide, audiovisivi, sarebbero un valido aiuto all’economia del Belpaese.
E, infine, una constatazione: dal medioevo in poi l’arte religiosa da sola rappresenta una percentuale altissima all’interno delle nostre ricchezze artistiche, rappresentando di fatto un elemento anche solo semplicemente culturale della civiltà europea e d’occidente in generale. Lo sanno tutti, dagli storici d’arte ai comuni cittadini. E tutti sanno che non è solo un problema confessionale, ma di matrice culturale. I politici e giuristi che hanno messo mano alla costituzione europea non lo sapevano.

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