Di Gianni Borsa

“Abbiamo fatto i compiti a casa e quindi siamo autorizzati a chiedere a Bruxelles un po’ di flessibilità”. Carlo Altomonte, docente di Economia dell’integrazione europea all’Università Bocconi di Milano, accosta, a una rigorosa analisi economica, ragionamenti di carattere politico e culturale. Tanto che, a margine del viaggio del premier italiano Enrico Letta a Berlino, Parigi e Bruxelles (30 aprile-2maggio), segnala con convinzione: “Occorre dimostrare, con i fatti, che l’integrazione comunitaria è un vantaggio, così da convincere i cittadini. Perché il rischio, in caso contrario, è veder crescere l’antieuropeismo, il quale è, oggi, una minaccia per la stabilità politica e democratica” in vari Paesi Ue. Altomonte si è formato alla Bocconi e all’Università cattolica di Lovanio; ha quindi collaborato con la commissione Affari monetari del Parlamento Ue ed è consulente della Banca centrale europea.

Professore, partiamo dai “duetti” di questi giorni tra Letta e personaggi del calibro di Merkel, Hollande, Van Rompuy, Barroso. È risuonato più volte il binomio rigore-crescita: perché?
“Si tratta di due elementi correlati, considerando che la crescita può avvenire dal lato della domanda (spesa pubblica, minori tassi di interesse) o dall’offerta (riforme). La ricetta prevista dal Trattato di Maastricht del 1992, cui abbiamo liberamente aderito e al quale siamo vincolati, prevede un consolidamento dei conti pubblici come condizione necessaria per un recupero di efficienza e una maggiore competitività del sistema economico attraverso le riforme. Ma le regole ferree scritte nel trattato andrebbero poi modulate nel contesto storico in cui ci si trova. Oggi la situazione è ben diversa rispetto a vent’anni fa: abbiamo un’economia depressa a causa della crisi, servono dunque aggiustamenti non solo sul lato dell’offerta ma anche della domanda. Direi che al momento occorre lavorare su questo aspetto, stimolando i consumi e gli investimenti, riducendo la pressione fiscale, riattivando il credito alle imprese attraverso la politica della Bce”.

Ma questa è una formula dal sapore keynesiano, o no?
“In parte sì, come ‘keynesiana’ è stata la ricetta che ha risolto la Grande Depressione negli anni ‘30. Anche se a un certo punto è necessario capire dove tirare la linea tra il sostegno all’economia e il consolidamento dei conti pubblici, aspetto non meno rilevante. Da questo punto di vista con l’azione del governo Monti l’Italia ha riguadagnato credibilità sulla scena europea: ci si è impegnati per il pareggio strutturale di bilancio e il rientro del debito (il 3% l’anno circa, stando al Fiscal compact) e nel 2012 abbiamo rispettato il parametro del deficit, tanto che a giorni dovrebbe essere annunciata dalla Commissione Ue la chiusura della procedura d’infrazione. Inoltre l’Italia è il Paese dell’Eurozona con il maggior avanzo primario. Ora si può trattare con l’Ue per una maggiore flessibilità riguardo gli stessi parametri di finanza pubblica, così come è accaduto con altri Stati, e di recente con Francia e Spagna. Ritengo, infatti, che le istituzioni comunitarie abbiamo compreso che di troppa austerità si muore”.

Ma quali sono i punti deboli del Belpaese?
“Abbiamo pur sempre un debito pubblico tra i più elevati d’Europa e il problema in questo caso è soprattutto la mole di interessi passivi che lo Stato deve pagare ogni anno, pari a circa il 5% del Pil. Il secondo punto debole dipende dal fatto che, oggettivamente, non abbiamo una storia di grande credibilità politica, nel senso della stabilità e della coerenza dell’azione di governo nel tempo. Osserverei che il governo Monti ha avviato una fase positiva che va ora confermata”.

Si parla spesso di rilancio della crescita. Concretamente cosa significa?
“Da un lato bisogna rimettere in moto la macchina delle riforme: pensiamo a quella del mercato del lavoro, ai tagli alla spesa della pubblica amministrazione, a una più complessiva spending review sia a livello centrale che periferico… In questo caso i risultati arriveranno nell’arco di tre o quattro anni. Parallelamente servono azioni con ricadute nel breve periodo, cominciando a restituire qualcosa agli italiani sul versante di una minor pressione fiscale per famiglie e imprese. Questo sarebbe un segnale di grande peso, l’indicazione che stiamo davvero svoltando, ricreando fiducia fra i produttori e i consumatori. Non da ultimo, sarà importante agganciarsi al treno della ripresa mondiale, che potrebbe arrivare sin dalla seconda metà di quest’anno: ricordiamo che le nostre imprese vivono molto di export, e questo sarebbe un elemento a nostro favore. Certo, mi rendo conto che si tratta di piccoli pezzi di un puzzle complesso, ma sappiamo che non esiste una bacchetta magica per la crescita. Si devono seguire strade diverse e ricostruire, insieme, stabilità politica, risanamento del sistema-Paese, competitività dell’apparato produttivo e commerciale”.

L’antieuropeismo, problema riecheggiato più volte nel viaggio europeo del premier Letta, preoccupa anche gli economisti?
“Sicuramente. Si tratta di una questione di respiro culturale e politico assieme. Ritengo che, in merito a quanto dicevamo, l’Ue non deve avvitarsi nei tecnicismi o nel solo rispetto di dogmi talvolta fallaci. L’austerità e il rigore sinora predicati hanno un senso, ma certo hanno contribuito, a torto o a ragione, ad alimentare sentimenti euroscettici e populisti. Sappiamo invece che le politiche nazionali e lo stesso cammino d’integrazione europea sono processi democratici che, in quanto tali, hanno necessità di essere compresi e sostenuti dai cittadini. Per tale ragione è essenziale convincere i cittadini – mediante risultati concreti e positivi – che l’Europa è necessaria ed è un valore aggiunto per la soluzione dei problemi nazionali e continentali”.

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