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Tre parole da riscoprire

ITALIA – Spesso certe espressioni provocano in noi insofferenza e fastidio, specialmente quando queste sembrano delimitare la nostra libertà o il nostro desiderio di felicità. Eppure, se decidiamo di lustrare queste parole, togliendo via il significato che siamo soliti dare loro, per riscoprire il senso etimologico, potremmo trovare questi vocaboli persino piacevoli! È il caso di parole come autorità, obbedienza e sacrificio

La parola autorità evoca in molti di noi un senso di soffocamento e oppressione. Istintivamente siamo portati a respingere con velato garbo questa parola e tutto quello che si porta dietro perché sta lì a dirci che dobbiamo sottostare alla volontà di qualcun altro che detiene il potere e spesso lo esercita a proprio arbitrio. L’autorità è sempre patita e a maggior ragione quando a esercitarla è una persona che se ne approfitta per la posizione che ricopre. Se invece lo osserviamo con attenzione, possiamo notare che questo vocabolo deriva dal latino “auctoritas” che a sua volta proviene dal verbo “augere”  che vuol dire “far crescere”. Dunque, nel suo senso genuino, l’autorità è finalizzata alla crescita. Un genitore che fa ricorso all’autorità vuole che i suoi figli crescano.  Un insegnante che svolge il suo lavoro con autorità mira a far aumentare le conoscenze e le capacità dei suoi alunni. Un datore di lavoro fa buon uso della  sua autorità quando stimola i suoi dipendenti e li fa maturare professionalmente. Messa in questi termini, è più facile ricoprire un ruolo importante e chi è soggetto all’autorità ha una maggiore predisposizione all’obbedienza

E veniamo a quest’altra parola quasi scomparsa dall’educazione sia familiare che scolastica e sempre più rarefatta anche nell’ambito religioso. Si ha quasi il timore di pronunciare questa espressione perché evoca, in chi sarebbe tenuto all’obbedienza, un senso di servilismo. Ma anche in questo caso se andiamo a vedere il significato originario della parola, esso è molto più pregnante e carico di significato di quello che generalmente gli attribuiamo. “Obbedienza” viene dal latino ob audire, cioè “ascoltare verso”. L’etimo ci fa comprendere che obbedienza vuol dire in primo luogo “prestare attenzione”, “mostrare disponibilità”. Anche se sempre meno utilizzata nell’ambiente religioso, proprio per quel senso di sottomissione che genera, questa parola è di centrale importanza nell’esperienza di fede. Una delle caratteristiche principali del cristiano dovrebbe essere l’attenzione che egli rivolge alla Parola di Dio. Obbedienza dovrebbe significare per il cristiano ascolto attento e partecipe di Dio che si rivela attraverso la Sacra Scrittura. L’obbedienza cristiana dunque è dialogica ed è prestata a Dio perché si riconosce in lui la fonte di ogni bene. Questa obbedienza dunque è sempre fiduciosa come quella di un figlio che si fida delle parole dei suoi genitori

La parola che però più difficilmente riusciamo ad ascoltare, a causa della nostra sensibilità culturale, è senza ombra di dubbio la parola “sacrificio”. Comunemente questa parola indica la rinuncia che dobbiamo fare in vista di un bene superiore. Facciamo un sacrificio, per esempio, se sottraiamo del nostro tempo per stare con una persona che ha bisogno di noi. Sicuramente il sacrificio è anche questo, ma la sua valenza originaria voleva esprimere la consacrazione, il, come dice la parola stessa, fare sacro. Sacrificio vuol dire quindi primariamente fare sacra un’azione o una cosa, cioè ordinarla verso Dio e secondo la sua volontà di bene. Siamo abituati ad associare questa parola all’evento della morte di Gesù, ma, se cogliamo il suo senso vero, non possiamo non pensare che tutta la vita di Gesù è stata un sacrificio, cioè un orientare tutta la vita verso Dio. Con la sua nascita Gesù è venuto a rendere ancora più sacra la dignità della vita umana, con il suo insegnamento ci ha aperto la strada che porta al bene, infine ha messo nelle mani di Dio anche l’aspetto più oscuro della vita: la morte. Gesù, come ci raccontano i vangeli, non ha soltanto sofferto una morte dolorosissima, ma ha dovuto affrontarla estremamente solo: era stato rifiutato da una parte del suo popolo, dalle autorità religiose e politiche, era stato tradito da un suo amico e anche gli altri che gli volevano bene erano fuggiti, persino quelli che stavano in croce vicino a lui lo schernivano. In questa situazione di terribile solitudine, Gesù  avrebbe potuto ribellarsi a Dio, avrebbe potuto urlare tutta la sua rabbia nei confronti dei suoi nemici e invece, ancora una volta, per l’ultima volta, ha orientato la vita verso Dio, riuscendo addirittura a perdonare tutto il male ricevuto. Gesù ha fatto così sacra anche la sua morte e grazie a lui il massimo del male subito è diventato il massimo dell’amore donato

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Nicola Rosetti: