Di Bruno Cappato dal Sir
 
VATICANO – “Introibo ad altare Dei” (“Mi avvicinerò all’altare di Dio”) erano le parole che il sacerdote diceva ai piedi dell’altare all’inizio della Messa e il chierichetto non latinista rispondeva “Ad Deum qui laetificat juventutem meam” (“A Dio che rende gioiosa la mia giovinezza”). E’ passato molto tempo; c’è stato il Concilio Vaticano II; la vita cristiana cerca ancora – a cinquant’anni da quell’avvenimento – strade nuove perché il contesto di tutta la realtà è cambiato radicalmente. Quel mondo tranquillo che vedeva la giornata aprirsi in preghiera sommessa di pari passo con il sorgere del sole, con l’espandersi della prima luce mattutina, è svanito. Si è perso. Il Concilio ha avuto – per ispirazione divina – la saggezza di un’intuizione che identifica la vivacità straordinaria e mai spenta della Chiesa e del Vangelo. Guardando a distanza di mezzo secolo a quell’avvenimento ed avendo la possibilità di cogliere il tempo che lo ha preceduto e seguito, si avverte con evidenza che quei vescovi e teologi riuniti in San Pietro erano i testimoni “vivi e vitali” di una ricchezza di storia millenaria; molti erano anziani e lo stesso Papa Giovanni XXIII era stato visto come una personalità sì saggia e dotta, ma passeggera, in attesa di un nuovo che forse si intuiva, che forse già bussava alle porte ma che non era ancora evidente; è difficile sempre staccarsi dalle cose note, abituali e tradizionali per affrontare un viaggio misterioso e nuovo. Toccò proprio a Giovanni XXIII sconvolgere questi legami che potevano paralizzare la comunità cristiana.
Il Papa, nel discorso di apertura del Concilio dimostrò coraggio e giovinezza; ecco un esempio tratto da quel discorso storico: “Nell’esercizio del nostro ministero pastorale, ci feriscono talora l’orecchio suggestioni di persone, pur ardenti di zelo, ma non fornite di senso sovrabbondante di discrezione e di misura.
Nei tempi moderni esse non vedono che prevaricazioni e rovina; vanno dicendo che la nostra età, in confronto con quelle passate, è andata peggiorando e si comportano come se nulla abbiano imparato dalla storia, che pure è maestra di vita. A noi sembra di dissentire da codesti profeti di sventura, che annunziano sempre eventi infausti quasi fosse la fine del mondo.
Nel presente momento storico, la Provvidenza ci sta conducendo ad un nuovo ordine di rapporti umani, che, per opera degli uomini e per di più della loro stessa aspettativa, si volgono verso un compimento di disegni superiori e inattesi, e tutto, anche le umane avversità, dispone per il maggior bene della Chiesa”.
Sono parole di un ottimismo sconcertante! Sembra impossibile che un anziano Papa potesse avere questo coraggio e questa forza che poi – negli anni successivi – si confermò ogni volta in modo così sensibile al mutamento in atto della società nelle figure straordinarie del pontificato di questo mezzo secolo.
Il Concilio rappresenta comunque una sfida che produce addirittura smarrimento e paura. Il mondo procede con i suoi ritmi travolgenti; non si finisce di fare un’analisi, uno studio dei fenomeni ed è già tutto da rifare, da rivedere.
Tutti coloro che si riconoscono nella comunità cristiana sono chiamati ogni giorno ad interrogarsi e a cercare di dare risposte ai «perché?» e ai «perché no?», alle continue questioni che forse solo il buon Tommaso d’Aquino con tutta la sua scienza potrebbe ora risolvere.
Non facciamo esempi solo perché molte volte tutti avvertiamo la difficoltà di una mondo cattolico diviso, contraddittorio, che ha l’apparenza di un tessuto strappato e sfilacciato.
Le parole del Buon Giovanni XXIII saggio e conoscitore della storia ci può dare di nuovo coraggio ad accettare una sfida che sembra perduta in partenza.
Rimane però anche – per chi ha una certa età – il rammarico per un mondo buono, forse innocente che è sparito del tutto. Così può nascere il rimpianto di quell’”Introibo ad altare Dei” e di un tempo meno ricco ed evoluto ma che amava i sentimenti, quelli che non appassiscono mai.
Come non sorridere alla tenerezza di queste parole di Ada Negri (“I giorni di Castelcampo”) di fronte alla pieve: “Qui sosto: di quassù tutto è sorriso/ per gli occhi: guardo rastrellare i fieni/ sui prati, i buoi condurre i carri, e in gruppi/ canori andar le donne alla fontana coi/ secchi. E qui vorrei metter radici/accanto ai tigli del sagrato, folti/di rami e di memorie; e mi svegliasse/ ogni alba, con le frecce delle rondini,/ la campanella della messa prima”.

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