Dal Sir di Fabio Zavattaro

ITALIA – L’immagine della liturgia domenicale è la moltiplicazione dei pani e dei pesci. Non è solo un miracolo. Siamo in primavera, la Pasqua è vicina; Cristo ha di fronte una folla incredibile e non c’è cibo per tutti. Almeno così credono Filippo e Andrea. Loro sono un po’ tutti noi, che crediamo di poter fare tutto da soli. Ecco che appare un ragazzo, non conosciamo il suo nome, il suo volto, non abbiamo una sua descrizione. Lui, il ragazzo, ha cinque pani d’orzo – il primo dei cereali che matura – e due pesci. Cosa raccontano i quattro Vangeli: che tutti sono stati sfamati, a partire da quei pani e pesci; anzi, con quanto avanzato sono stati riempiti diversi canestri, dodici per l’esattezza. Come le dodici tribù d’Israele, come i dodici apostoli.
Il miracolo sotto i nostri occhi non è tanto la capacità di sfamare le cinquemila persone presenti, quanto farci comprendere che è condividendo il nostro poco, mettendolo in comune, che riusciamo ad essere artefici di un miracolo: la solidarietà, essere vicino al nostro prossimo. Cosa fa il ragazzo? Mette a disposizione di tutti quel poco che ha, senza domandarsi come fare con cinque pani e due pesci a sfamare cinquemila persone. Il Signore sembra dirci: la fame finisce non quando mangi a sazietà, ma quando condividi anche il poco che hai. Commenta il Papa all’Angelus da Castel Gandolfo: “Il miracolo non si produce a partire da niente, ma da una prima modesta condivisione di ciò che un semplice ragazzo aveva con sé. Gesù non ci chiede quello che non abbiamo, ma ci fa vedere che se ciascuno offre quel poco che ha, può compiersi sempre di nuovo il miracolo: Dio è capace di moltiplicare ogni nostro piccolo gesto di amore e renderci partecipi del suo dono”.
Questa pagina del Vangelo la ritroviamo nella fatica che il Concilio ha fatto di mettere al centro della sua riflessione l’uomo visto nella sua concretezza storica, l’uomo delle società ricche e dei Paesi poveri. L’uomo fragile, debole, ma in quanto creato a immagine e somiglianza di Dio, con una sua inalienabile, incancellabile dignità. Tornano alla mente le parole contenute nell’enciclica di Benedetto XVI “Caritas in veritate”, evoluzione di un pensiero che ha origine nei giorni del Concilio, che trova cittadinanza nella costituzione “Gaudium et spes”, una Chiesa pronta a riannodare i fili del dialogo con il mondo, capace di leggere i segni dei tempi e sentirsi così realmente e intimamente solidale con il genere umano e la sua storia.
E che vede nella “Populorum progressio” di Papa Montini un ulteriore elemento di riflessione, dove giustizia e carità sono un processo unico per dare sviluppo e speranza ai popoli.
Il Concilio mette davanti ai nostri occhi una verità che Paolo VI così sintetizzava nel suo discorso di chiusura del Vaticano II: mai come in questa occasione “la Chiesa ha sentito il bisogno di conoscere, di avvicinare, di comprendere, di penetrare, di servire, di evangelizzare la società circostante e coglierla, quasi di rincorrerla nel suo rapido e continuo mutamento”.
Leggere i “segni dei tempi” significa volgere la propria attenzione al mondo nella sua complessità, mettendo in primo piano la scelta dell’uomo che il beato Giovanni Paolo II porrà in evidenza nella sua “Redemptor hominis”, prima Enciclica del suo lungo pontificato.
Papa Benedetto offre la sua lettura nella “Caritas in veritate”, mettendo insieme due parole: giustizia e carità. Scrive: “La carità eccede la giustizia, perché amare è donare, offrire del ‘mio’ all’altro; ma non è mai senza la giustizia, la quale induce a dare all’altro ciò che è ‘suo’, ciò che gli spetta in ragione del suo essere e del suo operare. Non posso ‘donare’ all’altro del mio, senza avergli dato in primo luogo ciò che gli compete secondo giustizia. Chi ama con carità gli altri è anzitutto giusto verso di loro”.
Per Paolo VI la giustizia è la “misura minima” della carità. Così nella sua “Populorum progressio”, forte è l’eco della Costituzione conciliare “Gaudium et spes”, perché se è vero che le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini di oggi, soprattutto dei poveri, sono le stesse della Chiesa, allora la carità esige la giustizia, il riconoscimento e il rispetto dei legittimi diritti degli individui e dei popoli.
Esige uno sviluppo umano integrale: lo sviluppo è il nuovo nome della pace. E Benedetto XVI, nella “Caritas in veritate” scrive che “la condivisione dei beni e delle risorse, da cui proviene l’autentico sviluppo, non è assicurata dal solo progresso tecnico e da mere relazioni di convenienza, ma dal potenziale di amore che vince il male con il bene e apre alla reciprocità delle coscienze e delle libertà”.
Così parlando al Corpo diplomatico il 9 gennaio 2006, nemmeno nove mesi dopo la sua elezione, Benedetto XVI può affermare che “non si può dire pace, là dove l’uomo non ha nemmeno l’indispensabile per vivere in dignità. Penso qui alle turbe sterminate di popolazioni che soffrono la fame. Non è pace, la loro, anche se non sono in guerra: della guerra, anzi, esse sono vittime inermi”.
Frutto del Concilio è anche l’evoluzione del pensiero che chiama tutti i credenti, il popolo di Dio, alla responsabilità propria, a quella condivisione che il ragazzo del Vangelo ci mette sotto i nostri occhi con estrema evidenza. Le idee seminate dalla “Gaudium et spes” hanno camminato nel pensiero non solo di teologi, fino ad arrivare a essere evidenti nella storia dei popoli. È appena il caso di ricordare l’Enciclica di Papa Wojtyla “Centesimus annus” che sanzionò il crollo del marxismo. Ma invece di proclamare il trionfo del sistema capitalistico liberale, disegnò un progetto di società fondato proprio sul primato della persona.

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