Pubblichiamo la prima riflessione inviataci dalla professoressa Susanna Faviani.

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GROTTAMMARE – Si è suonata la campana. Non è un presagio di chissà cosa, semplicemente il suono della campanella scolastica all’ultimo giorno di scuola, coperto dalle grida assordanti degli alunni raggianti. Dei miei “primi” 16 anni nella scuola come insegnante ho tanti ricordi, i volti degli alunni più in difficoltà, quelli che mi sono restati indelebili nel cuore e che mai scorderò. Come mia madre, che da insegnante in pensione, ancora ricordava negli ultimi giorni della sua vita alcuni suoi alunni, di cui aveva condiviso le sofferenze, che aveva cercato di alleviare.

Cosa può fare un insegnante? Poco. Può accompagnare per mano un alunno per un breve tratto della sua vita, è quasi un battito d’ali, un’alba e un tramonto fugace per poi non rivederlo più. Ma un insegnante vero è per sempre. Abituati alla pazienza infinita, a trattenere uno scatto, un moto nervoso, spesso più che umano, specie con i ragazzi di oggi, che ti provocano continuamente, alla fine impariamo a placare le ire quasi come un bonzo, come in una filosofia interiore. Mi è stata chiesta una riflessione su questo anno scolastico, alla sua chiusura, purtroppo non è molto positiva. La scuola può collaborare con la famiglia per il bene del ragazzo, ma non può sostituirla. Con questa crisi i genitori sono costretti a fare due-tre lavori per tirare avanti la carretta e non sono mai a casa. Questo è un male, i figli crescono con la televisione e internet, senza confrontarsi con gli adulti. Come può esserci una trasmissione di valori da una generazione all’altra, di ideali, se ci si confronta solo con i propri pari? Da educatore, per me questo è molto grave.

Non diamo però solo la colpa alla crisi: lo sfascio delle famiglie, le separazioni, contribuiscono, a mio avviso, a destabilizzare i figli, a far crollare in loro quei primitivi valori di “mamma e papà” sempre uniti e di “famiglia”.. Gli viene forzatamente inculcato che l’amore può finire e che quindi, nulla è stabile, nulla eterno, nulla immutabile. Ma questo eracliteo pensiero rende il pavimento dove i ragazzi camminano come di cristallo fessurato, ad ogni passo, cioè ad ogni passaggio, fase di crescita, il ragazzo lo sente scricchiolare sotto i piedi, perdendo sicurezze e stabilità. Allora crescono le schiere di ragazzi giovanissimi dallo psicologo, pieni di ansie, di paure, di problemi, di fragilità. Mi sono chiesta che cosa può fare un educatore nella scuola, un professore come me? Mi sono data una risposta, forse banale. Prima di tutto di far rispettare le regole e poi di far capire che c’è un tempo per ridere e per giocare, ma che poi c’è un tempo per il silenzio, per il lavoro, per lo studio. Chiasso e silenzio devono- a mio avviso – alternarsi nella vita di ciascuno di noi, guai se l’uno prevarica l’altro. Guai se si fa a meno del secondo, per il primo. L’uomo senza silenzio e una creatura vuota, che attende passiva la morte, che verrà per tutti noi, prima o poi.

Risulta difficile far capire questo ai nostri alunni, cioè che c’è più gioia nel dare, che nel ricevere, che l’uomo da solo è un nulla, che la bellezza è l’anelito più alto dell’umanità, intendendo per bellezza lo spirito, l’arte, la cultura, la natura, il creato. Questo e solo questo tenta di fare un professore come me, con umiltà, ma non sempre riesce. In fin dei conti il mestiere dell’insegnante è un po’ come quello di un contadino cieco: getta i semi ovunque, ma non tutti germoglieranno, altri si perderanno per strada… Ma se anche uno soltanto crescerà e produrrà frutti, come dice il Signore, allora il lavoro non sarà stato vano.

Come li vedo i ragazzi oggi? Persi. Persi alla ricerca dell’avere per colpa di noi adulti che così li abbiamo abituati, ma in fin dei conti, attenti a osservare l’adulto educatore, a cogliere tutte le sue sfumature, a volte li si vede transitoriamente felici solo quando comprano, così come ci ha abituati la società consumista, ma alla fine, in realtà, assetati d’amore. Il compito dell’insegnante per me è quello di aprire una finestra e mostrare un’altra prospettiva, poi sarà l’uccello a decidere se spiccare il volo o se restare chiuso nella stanza dove è prigioniero.

Tutto qua. E’ poco, lo so, a volte siamo affogati dalle carte da compilare nell’industria della burocrazia che è lo Stato italiano, ma guai se il nostro lavoro di insegnanti si esaurisse qui, sarebbe un fallimento in partenza. Che cosa ho detto ai miei alunni l’ultimo giorno di scuola? “Ragazzi, divertitevi, ma ragionate sempre”, che è un po’ l’ equivalente dell’agostiniano: “Ama e fa’ quel che vuoi”. Forse è poco, lo so, ma io spero in loro e ho fiducia . Questa è la mia riflessione di professoressa sull’anno scolastico appena trascorso 2011-2012.

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