Di Francesco Rossi

Esiste un’accoglienza che non fa rumore, non alza barricate contro i migranti. Perché, in fondo, non ce ne sarebbe neppure bisogno. “Quando l’accoglienza funziona nemmeno si nota”, osserva Franco Balzi, da una vita impegnato nel sociale, nel 2014 eletto sindaco di Santorso, Comune di 6mila abitanti nell’alto vicentino. Invitato a parlare al seminario nazionale di pastorale sociale della Cei in corso a Firenze, nella giornata dedicata ai “conflitti”, Balzi racconta del “cortocircuito” tra i diversi livelli istituzionali nella gestione dei migranti, ma anche di un modello di accoglienza diffusa che funziona, e che ha una cornice istituzionale nello Sprar, il Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati in Italia nato nel 2001, e che solo nel 2016 ha messo a disposizione oltre 27mila posti sul territorio nazionale.

Ma non tutto fila liscio, soprattutto quando i numeri crescono e diversi sindaci si oppongono con tutte le loro forze. Balzi comincia il suo racconto da un incontro al bar con un suo cittadino, pochi mesi dopo l’insediamento in Comune.

“Li ha voluti lei, vero?”, l’apostrofa l’avventore. Il sindaco trasecola, non sa di che si stia parlando. Ma presto capisce: una novantina di profughi richiedenti asilo la sera prima è stata portata in un albergo a due stelle nella periferia.

“Un approccio emergenziale della Prefettura che stravolgeva un’esperienza di accoglienza che Santorso aveva già da 15 anni”, racconta ora. Già, perché Santorso, come tanti altri Comuni in Italia, fin dall’inizio dello Sprar aveva messo in campo “un sistema di accoglienza diffusa, compenetrata nel tessuto cittadino a tal punto da essere impercettibile”. Non grossi assembramenti, che in fin dei conti portano a ghetti o banlieue, ma “appartamenti presi in affitto, dove il Comune si prende la responsabilità assieme all’ente gestore”. Mentre spesso, come questo caso dimostra,

“c’è un cortocircuito istituzionale sui diversi livelli di responsabilità: il sindaco si trova a subire decisioni prese dalla Prefettura, mentre il prefetto lamenta l’indisponibilità dei sindaci”.

Balzi non ci sta a “subire” la situazione, ma nemmeno vuole chiudere le porte a chi ha bisogno, così “nel settembre 2015 – prosegue nel racconto – abbiamo costruito un protocollo d’intesa con la Prefettura nell’ottica di una collaborazione, per recuperare quella pratica dell’accoglienza diffusa che si era dimostrata efficace nell’approccio”. È qui che viene stabilita, tra i firmatari, la “quota” di un’accoglienza sostenibile: 2 immigrati ogni 1.000 abitanti.

“Rispettare questo limite era un impegno morale tra i sindaci firmatari e il prefetto”, sottolinea il primo cittadino di Santorso, spiegando di essere riuscito a far aderire 24 Comuni della provincia di Vicenza, comprese alcune amministrazioni che di accoglienza non volevano sentir parlare.

“Ma questa era una visione lucidamente pragmatica: un Comune di 10mila abitanti così avrebbe avuto da sistemare solo 20 profughi. In alternativa poteva opporsi a oltranza, ma con il rischio che la Prefettura trovasse nel suo territorio una struttura capiente e ne facesse arrivare molti di più”. Così l’accordo “ha permesso di accogliere 250-300 persone con una dimensione assolutamente praticabile”.

Oggi di quella novantina di profughi ne sono rimasti 28, cui se ne aggiungono altri 18 – sempre a Santorso – gestiti dallo Sprar, mentre il protocollo “ormai è definitivamente superato dalla normativa nazionale – osserva il sindaco – che peraltro stabilisce il limite di 2,5 immigrati ogni 1.000 abitanti, con una clausola di salvaguardia per cui, se un Comune aderisce, va rispettata la quantità numerica”. Quando Balzi ha ricordato ai suoi cittadini che Santorso dall’inizio degli anni 2000 ospitava profughi, la gente nemmeno ci credeva. “Sindaco, è vero che li avevamo anche prima?”, gli hanno domandato. Segno che investire in un’accoglienza diffusa è una “buona pratica” amministrativa e affrontare insieme il fenomeno migratorio permette di farlo uscire dall’emergenza e condurlo nella normalità.

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