AfricaDi Davide Maggiore

È stata una protesta senza precedenti negli ultimi vent’anni, che ha toccato quasi tutti i simboli del potere nel Sudafrica democratico: prima il parlamento di Città del Capo, poi Luthuli House (sede del partito di governo African national congress) nel centro di Johannesburg, infine gli Union Buildings, il palazzo della presidenza a Pretoria. A dare vita alle manifestazioni, migliaia di studenti delle principali università sudafricane, in varie zone del Paese: tutti uniti nel chiedere che le tasse universitarie – che i vari atenei avevano deciso di far aumentare di percentuali in alcuni casi superiori al 10% – non fossero alzate e che anzi si andasse verso un’istruzione gratuita per tutti.

Cambiamento lento. C’è stato però più di questo dietro la mobilitazione dei giovani, soprattutto di quelli, in maggioranza neri, provenienti dalle famiglie più povere: su di loro gli aumenti avrebbero pesato maggiormente, se il presidente della repubblica, Jacob Zuma, non ne avesse infine annunciato il congelamento per un anno di fronte alle proteste. Vari commentatori hanno citato l’eredità dell’apartheid, la segregazione razziale abolita all’inizio degli anni ‘90, che ancora oggi fa sentire i suoi effetti in termini di differenze di opportunità tra i cittadini. “Molti studenti si lamentano della lentezza dei cambiamenti nelle nostre istituzioni universitarie, dei molti fattori – dalla lingua ai programmi ancora troppo ‘occidentali’ o eurocentrici – che li fanno sentire poco accolti, e persino di alcune sacche di razzismo”, riconosce anche Russell Davies, direttore del Rural education access programme (Reap), con cui la Chiesa cattolica si incarica di fornire borse di studio agli studenti delle aree più disagiate. La maggior parte dei dimostranti, però, appartengono alla cosiddetta generazione “nata libera”, cioè venuta al mondo dopo le prime elezioni democratiche del 1994 e le loro preoccupazioni sembrano di ordine più concreto, quotidiano.

Problema globale. Per chi non ha mezzi, infatti, l’unico modo di seguire i corsi degli atenei più prestigiosi è contare su sponsor privati, o sui prestiti garantiti da un programma dello stato. Somme che alla fine degli studi vengono in parte condonate, trasformandole a cose fatte in borse di studio: ma il resto del debito rimane da pagare. Cosa non facile, in un Paese con una disoccupazione giovanile stabilmente oltre il 35% almeno dal 2011. E la situazione non sembra poter cambiare radicalmente nel prossimo futuro: “Nonostante i fondi del governo per l’istruzione superiore siano aumentati negli anni (+70% dal 2001 secondo l’organizzazione indipendente GroundUp, ndr) – prosegue infatti Davies – la somma complessiva resta pesantemente inadeguata: bisogna vedere tutto questo nel contesto sudafricano di oggi, con l’economia che fatica e altre necessità primarie, come gli alloggi, la sanità e componenti diverse del sistema scolastico, che pure esistono e premono sul bilancio statale”.

Futuro incerto. Non meraviglia quindi che la protesta abbia preso un carattere sempre più politico, con le critiche degli studenti che si sono rivolte prima al ministro dell’Istruzione superiore, Blade Nzimande, poi al parlamento dove il responsabile delle Finanze, Nhlanhla Nene, stava presentando i numeri del bilancio statale, infine all’African national congress e al suo già contestato leader Zuma. “Non si può negare che ci sia uno scontento più generale, dovuto alla corruzione e alla malagestione delle risorse, di cui è un esempio la spesa di 246 milioni di rand (oltre 16 milioni di euro, al cambio attuale, ndr) per la residenza privata del presidente a Nkandla”, spiega in proposito il direttore del Reap. L’annuncio del congelamento degli aumenti ha evitato che la situazione degenerasse: per respingere gli studenti davanti agli Union Buildings, erano già stati usati idranti e lacrimogeni, e nei pressi del parlamento la polizia aveva sparato sui dimostranti con proiettili di gomma. Il futuro, però, resta incerto e il segnale d’allarme della contestazione giovanile è stato colto anche dalla Chiesa cattolica. La conferenza episcopale si è rivolta alle autorità – che nel frattempo hanno costituito un comitato incaricato di trovare soluzioni durevoli al problema – definendo la questione universitaria “critica dal punto di vista della giustizia, per rimediare alle conseguenze dell’apartheid, ma anche per costruire una base di competenze nazionali che permettano lo sviluppo umano ed economico del Sudafrica”.

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