DIOCESI – Giovedì 20 novembre presso la città di Ripatransone si è tenuto il ritiro del clero diocesano.
La mattinata è iniziata con l’incontro con Don Andrea Androzzi ed è poi proseguita con l’Adorazione Eucaristica e la Santa Messa Presieduta dal Vescovo Carlo Bresciani.

Vescovo Carlo Bresciani: “Chi può aprire il libro della vita? Solo il leone della tribù di Giuda, il Germoglio di Davide, l’Agnello immolato. Sappiamo che questi sono tutti appellativi del Messia, Gesù di Nazareth. Lui solo è “degno di prendere il libro e di aprirne i sigilli, perché è stato immolato e ha riscattato per Dio, con il suo sangue, uomini di ogni tribù, lingua, popolo e nazione, e ha fatto di loro, per il nostro Dio, un regno e sacerdoti”.

Abbiamo in questo grandioso scenario descritto dall’Apocalisse, in modo conciso ma molto efficace, la presentazione dell’opera salvifica di Gesù. Ė Lui che apre i sigilli della vita eterna, i sigilli posti a custodia del Paradiso dopo il peccato dei progenitori e ci introduce nella vita eterna. Ė Lui la porta attraverso cui bisogna passare (cfr. Gv 10, 7), perché solo chi crede in Lui avrà la vita eterna.

Vogliamo oggi far memoria di tanti nostri confratelli vescovi e sacerdoti che hanno creduto in Lui e hanno dato la vita per la nostra Chiesa diocesana. Sono stati umili servitori nella vigna del Signore, donando tutte le loro energie, molto spesso vivendo nella povertà vera e propria per la causa del Vangelo. Sono loro che ci hanno lasciato un’eredità di fede ben radicata nel nostro popolo, fede molto semplice ma concreta, fatta forse di poche parole, ma di tanta operosità nella carità. A questi nostri fratelli dobbiamo molta riconoscenza, anche perché spesso, dopo aver dato tanto per il bene della Chiesa, sono stati facilmente dimenticati da tutti. La riconoscenza, anche tra di noi, non sempre è una virtù presente e vissuta. Noi manifestiamo loro riconoscenza raccomandandoli a Colui che può aprire i sigilli della vita eterna.

Ricordare è “riportare al cuore”: non è solo opera di cervello, ma soprattutto di cuore. Se fosse solo opera di cervello, difficile la riconoscenza e la gratitudine; se invece è riportare al cuore, cioè apprezzare la loro dedizione e le loro opere di bene, allora nasce quasi spontaneo un moto di affetto e di ringraziamento. Di essi noi forse oggi sappiamo molto poco, – non sempre conosciamo la storia da cui proveniamo (ed è una povertà)-, ma sappiamo che hanno lavorato per Dio e per la nostra Chiesa e tanto basta per sentirci in profonda comunione con loro ed essere loro riconoscenti.

Ricordare è anche “riportare al cuore” di Dio. Presentare e affidare al cuore misericordioso di Dio e di Gesù, Colui che ha le chiavi del libro della vita, perché lo apra per loro e li introduca nella vita senza fine che è stata promessa ai suoi fedeli servitori.

Siamo riconoscenti a Dio e siamo riconoscenti ai nostri fratelli che ci hanno preceduto nel segno della fede e dormono il sonno della pace in Dio.
Come vescovi e come sacerdoti siamo chiamati a continuare la loro opera nella edificazione della Chiesa, ispirandoci alla loro operosità, tradotta in modalità nuove secondo le esigenze del nostro tempo. Siamo chiamati a nutrire la stessa fiducia in Gesù e nella forza intrinseca della sua Parola.

Quando leggiamo delle condizioni difficili in cui hanno dovuto annunciare il Vangelo, ne restiamo profondamente ammirati e avvertiamo la nostra pochezza anche siamo certamente molto più fortunati di loro avendo a disposizione mezzi più copiosi. Sappiamo però di non poter confidare su di noi e sui nostri mezzi, ma su Dio che ci invia alle sue pecore.

Noi ricordiamo oggi al Signore Gesù coloro che ci hanno preceduto con l’offerta al Padre dell’Unico che può intercedere per loro e per noi: Gesù stesso. Diciamo, infatti, nel canone della santa messa: “ti offriamo, Padre, in rendimento di grazie questo sacrificio vivo e santo. Guarda con amore e riconosci nell’offerta della tua Chiesa, la vittima immolata per la nostra redenzione”. Non abbiamo nulla da offrire a Dio, se non Gesù, la vittima immolata per amore della Chiesa e dell’umanità. Senza di Lui, le nostre mani sarebbero vuote, incapaci di aprire il libro della vita per chicchessia.

Grazie cari defunti, confratelli nell’episcopato e nel sacerdozio: grazie a nome di tutta la nostra Chiesa diocesana e grazie a nome di tutta la Chiesa universale. Voi riportate anche al nostro cuore l’amore per la Chiesa, corpo di Cristo, lo stesso amore che ha animato tutta la vostra vita. Il vostro ricordo incoraggia anche noi ad una sempre maggiore dedizione di amore e di servizio a quella porzione del popolo di Dio che ci è affidata.

Guardando ai nostri tempi forse siamo tentati di applicare ad essi il pianto di Gesù su Gerusalemme (Lc 19, 41-44). Egli guardando a questa grande città, centro del culto al Dio dei patriarchi e dei profeti, ma che non ha accettato l’annuncio del Vangelo, vede avvicinarsi la sua rovina. Gesù soffre per la chiusura del cuore della città amata e per la sua prospettata distruzione. Ė chiusa nel suo orgoglio di essere la città di Dio, ma tetragona alla voce dei profeti e di Gesù stesso. Accecata dall’orgoglio di essere la depositaria della Rivelazione, non si accorge che si è fermata al formalismo della lettera e ha dimenticato lo Spirito. “La lettera uccide, lo Spirito invece dà vita” (2Cor 3, 6).

Credo che qualche volta sia capitato a tutti noi di avere gli stessi sentimenti di Gesù nei confronti delle povertà del nostro tempo e delle nostre comunità che vanno assottigliandosi, invece che espandersi. Ci richiedono fatiche apostoliche sempre più intense, godendo sempre meno dei frutti di tanto impegno e dedizione.

Gesù avvertiva tutta la difficoltà della sua missione, al di là di qualche successo provvisorio di folla osannante. Invece che finire in depressione o in forme compensative di rifugio, trovava la sua forza nella comunione con la volontà del Padre.

Mai è stato facile l’annuncio del Vangelo per chi ha voluto essere fedele al mandato del Signore. Ricordando chi ci ha preceduto in questa missione nella Chiesa, lo constatiamo ancora una volta ammirati. Carissimi sacerdoti, traiamo stimolo da questi nobili esempi: la loro fede li sorresse in tempi difficili, quanto e forse più dei nostri. Seppero condividere la storia dei fedeli loro affidati aiutandoli a percepire l’amorevole mano di Dio dentro le loro travagliate storie di vita. Hanno fondato e fatto crescere la Chiesa che ci hanno poi lasciato in eredità: spetta a noi continuare la storia di Dio tra gli uomini d’oggi.

Se sentiamo tutta la nostra pochezza di fronte a tanto compito, sappiamo di non poter contare su di noi, ma su Dio. Sappiamo che dobbiamo agire come se tutto dipendesse da noi, sapendo che tutto dipende solo da Dio. San Paolo ha dovuto constatarlo anche nella sua missione ad Atene: qui ha capito in modo praticamente definitivo che non poteva contare sulla sapienza umana (senza rinunciare ad usarla, però), ma sulla sapienza della croce che sta nel fidarsi totalmente di Dio, anche di fronte ai fallimenti e ai rifiuti umani.

Carissimi, abbiamo ricevuto in eredità un tesoro che dobbiamo custodire e far crescere per amore di Dio e dei fedeli che ci sono stati affidati. Il Signore doni la sua pace a coloro che ce l’hanno lasciato e doni a noi la grazia di continuare a lavorare con fedeltà nella sua Chiesa.

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