Di Giovanna Pasqualin Traversa

Che il Papa venuto “quasi dalla fine del mondo” avrebbe portato una ventata nuova nella Chiesa si era intuito subito, fin dalla sua prima apparizione sulla Loggia delle benedizioni, la sera del 13 marzo dello scorso anno davanti ad una folla bagnata. A sorpresa, come l’improvvisa e provvidenziale interruzione della pioggerellina insistente che, complice la notizia della fumata bianca, aveva mandato in tilt il traffico di Roma e costretto a lunghe scarpinate verso piazza san Pietro. Ombrelli chiusi dunque, distanza ridotta tra le persone, quell’atmosfera sospesa che precede un grande evento, in mezzo a chi fino a poco prima azzardava pronostici, non ultimo quello del gruppetto di ragazzi accanto a noi, certi che il nuovo Papa sarebbe stato argentino come quel Messi, autore, la sera prima, di una memorabile doppietta contro il Milan nel ritorno degli ottavi di Champions League. Un modo informale, inedito per immaginare un Papa, ma rivelatosi con il senno di poi non così lontano dalla realtà.
La sensazione è al tempo stesso di rinnovamento, anzitutto spirituale e fondato sulla conversione del cuore, e di continuità, ma da un diverso angolo prospettico, quello appunto della “fine del mondo”, della “periferia” perché, spiega lo stesso Papa Francesco, la realtà si percepisce “meglio dalla periferia piuttosto che dal centro”. Una Chiesa dunque che esce da se stessa, non chiusa o autoreferenziale, una Chiesa che abbraccia e non esclude; missionaria e “ospedale da campo”, “povera e per i poveri”, “samaritana”. Ma non dovrebbe essere così da sempre? E le periferie non erano forse amate anche da Gesù che proprio in una di esse decise addirittura di nascere? Quale, allora, la novità del Pontefice, e dove Francesco sta portando e porterà la Chiesa? A cercare le risposte a domande che tutti si stanno ponendo da mesi è Paolo Rodari, vaticanista del quotidiano “Repubblica”, dando voce a monsignor Víctor Manuel Fernández, teologo e rettore della Pontificia Università cattolica argentina di Buenos Aires, creato arcivescovo da Papa Francesco in una delle sue primissime nomine episcopali, e uno dei più stretti collaboratori dell’allora cardinale Bergoglio nella stesura, nel 2007, del documento di Aparecida. Dalla conversazione tra i due nasce il volume “Il progetto di Francesco. Dove vuole portare la Chiesa” (ed. Emi 2014), sviluppatosi intorno all’esortazione apostolica “Evangelii Gaudium”, autentico programma di pontificato.
Le persone cambiano quando si sentono amate; per questo, secondo il Pontefice, la Chiesa deve annunciare anzitutto il “cuore” del Vangelo: l’amore e la misericordia del Padre, quell’essenziale che attrae perché risponde alle esigenze più profonde dell’uomo e consente la successiva ricezione, al suo interno, di precetti e principi morali. Sano realismo che fa gli fa rilanciare la “gerarchia nelle verità” affermata da San Tommaso e riproposta dal Concilio, e si traduce in opzione per il positivo rispetto al negativo: è preferibile, ad esempio, parlare della bellezza del matrimonio e dell’armonia creata dall’alleanza uomo-donna che non tuonare contro le nozze gay. Nell’affermazione dei cosiddetti principi “non negoziabili” il Papa chiede insomma stile, proporzioni e accenti diversi. E proporzione, chiarisce mons. Fernández, “non è mutilazione” del messaggio evangelico. Puntualizzazione oggi necessaria di fronte a chi, “sfigurando l’insegnamento di Benedetto XVI”, ha sostenuto che da quei princìpi dipendesse tutto l’insegnamento della Chiesa, deformando così il volto del cristianesimo. Per questo sono ingiusti gli attacchi e le critiche più o meno velate che oggi Francesco riceve da taluni settori del mondo cattolico e non, e da “fanatici” che finiscono per “convertire alcuni princìpi in una battaglia permanente”. Sui temi etici, in particolare la difesa della vita dal concepimento alla morte naturale, il Pontefice è “molto categorico” ma altrettanto convinto, come scrive nell’“Evangelii Gaudium”, che ogni verità si comprenda meglio “se la si mette in relazione con l’armoniosa totalità del messaggio cristiano” in cui tutte le verità “si illuminano reciprocamente”. E il cuore della fede è sempre e solo il kerygma.
Papa Francesco è uomo che tende sempre la mano e, coerente con la sua idea di “cultura dell’incontro”, nella riforma della Curia romana sembra optare per un processo “gentile”, senza imposizioni dall’alto. Per alcuni temi “sensibili” ha chiesto che vengano discussi e approfonditi all’interno di specifici Sinodi. Uno stile, anch’esso, che non gli risparmia riserve e critiche, osserva mons. Fernández, da chi non riesce a cogliere lo spirito di fede e carità che lo sottende e si arrocca su un presunto “onore della Chiesa” da preservare. Ma Francesco procede sicuro: i suoi gesti, le sue parole e azioni, che tanta eco suscitano in tutto il mondo e a volte fanno discutere, sono quelli di chi non si perde in discussioni oziose ma ha ben chiaro davanti a sé l’obiettivo, con la pazienza e i tempi necessari per conseguirlo.

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