Papa Francesco

Di M. M. Nicolais

Un’oasi di silenzio nel “cuore” della città. Uno dei luoghi preferiti dai romani soprattutto per godersi il tramonto. Qui dall’Aventino, il centralissimo colle tra il Tevere e il Circo Massimo che al tempo delle lotte fra patrizi e plebei era luogo di rifugio di questi ultimi – contrapposto al Palatino, rifugio per i ricchi – e oggi è una delle zone residenziali più ambite quanto inaccessibili della Capitale, Roma sembra lontana. Eppure, nel silenzio delle mura del monastero delle monache camaldolesi di Sant’Antonio Abate, c’è tutto il mondo. Anche quello, a quest’ora del pomeriggio molto rumoroso e caotico, di chi è intrappolato nel traffico per cercare di rientrare a casa dopo una giornata di lavoro. Il suo “contenitore” è la preghiera, incessante e silenziosa, di donne che hanno scelto la clausura come “custodia del cuore”, spiega l’abbadessa, madre Maria Michela Porcellato: “Non per essere fuori dal mondo ma per essere maggiormente dentro la storia dei nostri giorni”. Papa Francesco ha scelto di far visita a queste monache, per vivere con loro la Giornata delle claustrali, dedicata a tutte le comunità di clausura. È arrivato qualche minuto prima delle 17, accolto da una rappresentanza di romani tenaci anche sotto la pioggia, e ha varcato il cancello d’ingresso a bordo della Focus blu. Lo “stile” della visita, quello semplice e sobrio a cui questo Papa ci ha già abituato: la recita del Vespro insieme alle monache secondo la regola camaldolese, l’omelia, un breve momento di adorazione eucaristica e poi il colloquio privato con le suore. Poco più di un’ora in tutto. Alla fine, il dono delle ospiti: le “lettere” scritte da suor Nazarena Crotta, ultima reclusa che visse tra quelle mura, al suo padre spirituale.

Sappiamo aspettare il domani di Dio? “Sappiamo aspettare il domani di Dio, o vogliamo l’oggi?”. È la domanda rivolta, a braccio, dal Papa, che nell’omelia dei vespri, cantati con le monache, si è soffermato su Maria, “madre della speranza”, auspicando che quello del cristiano sia “un atteggiamento che sempre guarda al domani”. Ripercorrendo la storia di Maria a partire dal suo primo “sì” all’Angelo, il Papa ha fatto notare che “l’unica lampada accesa al sepolcro di Gesù è la speranza della madre, che in quel momento è la speranza dell’umanità”. “Domando a me e a voi: nei monasteri è ancora accesa questa lampada?”, la domanda esigente di Papa Francesco, che dall’Aventino rimbalza idealmente in tutti i chiostri del mondo.

Il silenzio e il frastuono. Secondo un’antica tradizione, è sull’Aventino che si hanno le prime tracce di vita monacale femminile a Roma. Fra la trentina di monasteri femminili presenti nella Capitale, quello delle camaldolesi ha una storia lunga e originale: nasce nel XVIII secolo dall’incontro tra una giovane vedova madre di tre figli, Anna Maria Pezza, e i monaci cenobiti camaldolesi di san Gregorio al Celio. “Semplicità, solitudine e fraternità” le tre parole chiave della regola, che scandisce una giornata dominata dalla presenza del silenzio orante. Ma la storia della comunità è anche la storia delle sue peregrinazioni forzate per la città: sotto la pressione dei moti napoleonici prima, repubblicani poi, e nel clima arroventato della Roma post-unitaria, le monache camaldolesi hanno dovuto più volte smontare e ripiantare la tenda. Una mobilità “ante litteram”, la loro, che oggi – dopo la rivisitazione della regola a partire dal Concilio – si chiama “itineranza”. Grazie ad essa, le suore vivono stabilmente sull’Aventino, ma hanno seminato avamposti in quattro continenti. E poi qui a Roma c’è la mensa dei poveri, che distribuisce pasti dal lunedì al sabato dalle 13.30 alle 14.30.

Fuori e dentro il mondo. Fino a 30 anni una vita brillante nel Connecticut, settima figlia di una coppia d’immigrati italiani: la musica, la laurea in letteratura, una passione per la danza e lo sport. Poi Julia Crotta, promettente “donna in carriera” di allora, sente la “chiamata del deserto”. Era il 1934. L’ingresso nel monastero di Sant’Antonio Abate, dove rimane per 45 anni fino alla morte, avviene nel 1945, proprio il 21 novembre. La cella di suor Nazarena misurava cinque metri per tre. Oltre che dell’Eucaristia, si nutriva solo di pane e acqua, con qualche goccia d’olio, dormiva su una semplice cassapanca sormontata da un crocefisso. Il Papa ha ricevuto in dono dalle monache le sue “Lettere”. In una vi si legge: “Più mi ritiro in Dio, nel silenzio più profondo, in Lui e con Lui, più mi sento vicina a tutti”. Fuori o dentro il mondo? Oggi, in questo pomeriggio romano, il “fuori” e il “dentro” non si elidono, si richiamano. Sembra di sentire le catechesi del mercoledì. La Chiesa è “come un fiume tranquillo”, ha detto il Papa in una di queste. Come il fiume che attraversa questa città, e che oggi – qui, in questo monastero di donne – sembra unire la “città di Dio” con la “città degli uomini”. La Roma frenetica, distratta e a volte crudele o indifferente con la Roma che si nutre di preghiera, contemplazione e servizio. Nella storia.

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