ASCOLI PICENO – Prosegue il nostro viaggio alla scoperta del mondo Scout. Questa settimana abbiamo fatto visita a Piergiorgio Ragneni e Valentina Valentini, capigruppo del Gruppo Scout Ascoli Piceno 4, che ha la sua sede presso la chiesa dei SS. Simone e Giuda a Monticelli. Ci siamo fermati per una piccola chiacchierata, in particolare sulla storia del gruppo, su alcuni capi “iconici” dell’Ascoli 4 e, infine, sul rapporto con la parrocchia, con i genitori e con i ragazzi.

Leggi la prima intervista: FOTO “Il nostro cammino scout”: dialogo con Mauro Meletti del gruppo Ascoli Piceno 1

Raccontatemi un po’ la storia del gruppo. Come nasce?

Il Gruppo Scout Ascoli Piceno 4 nasce su iniziativa della Comunità Capi dell’Ascoli Piceno 2, che vede nella realtà complessa del quartiere di Monticelli terreno fertile per iniziare un lavoro tendente all’impegno ed all’aggregazione dei ragazzi approdati nel quartiere da situazioni e zone diverse della città. È grazie all’impegno di un capo, sostenuto dalla Comunità Capi, che si è potuto portare lo scoutismo a Monticelli. Era il 1984 ed il capo in questione era Roberto Tarli: è così che nasce la prima Comunità Capi dislocata a Monticelli e composta da Roberto Tarli, Piero Petritola, Anna Frollo, Roberta Capecci, Pietro Manni, Oreste Martellini e Maddalena e Gaetano Masci.

Nel 1989 nasce ufficialmente il gruppo scout Ascoli Piceno 4 presso la parrocchia dei SS. Simone e Giuda; viene consegnato il nuovo fazzolettone del gruppo, i cui colori sono giallo e blu.

Nel 1995 la Comunità Capi vive un momento di crisi e comincia un cammino di affiancamento, finalizzato alla formazione di nuovi capi, da parte del gruppo scout del Folignano 1; questo affiancamento è durato fino al 1998, anno in cui l’Ascoli 4 ha ripreso il proprio cammino in autonomia.

Nel 1984 il Branco Seeonee presente nell’Ascoli 2 viene trasferito a Monticelli e diventa il branco dell’Ascoli 4.  Le prime vacanze di branco sono state fatte ad Astorara di Montegallo.

Sempre nel 1984 nasce il primo reparto misto, che prende il nome REBO, nome totem di don Roberto Pelletti, primo assistente ecclesiastico dell’Ascoli 1. Il primo campo estivo si è svolto a Pastina.

Nel 1986 nasce la prima comunità di clan/noviziato ed è stata affidata a Pietro Manni.

C’è stata, in questo gruppo, qualche personalità di spicco? 

Un nome che ci viene in mente è quello di Pietro “Piero” Manni, che ha dato un’impronta moderna al gruppo iniziando a porre attenzione per quello che è il percorso di formazione per la comunità capi, ad incentivare l’impegno trasversale tra gruppo e parrocchia e prestando attenzione alla comunità. Pietro amava questo gruppo come una seconda casa, al punto che, nonostante avesse capito che la malattia non gli avrebbe lasciato ancora tanto tempo, diceva: “Non ho paura di morire, però non puoi immaginare quanto mi dispiaccia lasciare tutto questo”.

Altro nome che ci viene in mente è quello di Loredana Tofani che, insieme a Pietro, è stata capogruppo e che si è distinta per la sua grande attenzione verso i capi tirocinanti. Altro nome è quello del marito di Loredana, Mimmo Bianchini, che è stato uno di quei capi tirato in ballo quando il gruppo era in difficoltà e che poi si è sempre speso per competenza; anche adesso Mimmo, sebbene non più in comunità capi, si spende per aiutare i giovani capi anche come aggancio nel mondo Caritas – è infatti il presidente dell’associazione Betania – per proporci situazioni dove prestare servizio ed è sempre pronto ad intervenire, quando lo chiamiamo, in attività o situazioni in cui il suo aiuto può essere fondamentale.

Qual è il messaggio educativo che più tenete a mandare ai vostri ragazzi ed ai genitori?

Valentina: è un periodo complicato, sicuramente più complicato di quando avevo le mie figlie qui dentro. È molto difficile trovare un punto d’incontro; io credo che non possiamo inventarci chissà quali effetti speciali. Ritengo che, come ci dissero ad un evento di formazione, l’unica cosa che possiamo fare, e credo che sia questa la nostra grande responsabilità con i ragazzi, è quella di mostrargli un modo alternativo rispetto a quanto vivano quotidianamente, un modo alternativo di vivere le relazioni, di vivere la relazione con l’altro. Ai genitori possiamo arrivare tramite i figli: se riesco a convincere un ragazzo che, per quanto difficile, valga la pena correre dei rischi in una relazione, allora noi capi abbiamo questo compito, sicuramente arduo, di vivere questa relazione in prima persona. Noi dobbiamo mostrare a questi ragazzi che c’è la possibilità di vivere relazioni basate sul rispetto, sul perdono e su ciò che è possibile. Non è semplice tutto questo, perché dobbiamo essere noi i primi a metterci in gioco, ad investire sulla relazione ed è difficile, perché nelle relazioni, per quanto vogliamo sembrare tutti amici, in fondo sappiamo che l’impegno per viverle in un certo modo, cristianamente parlando, è fondamentale.

Piergiorgio: Per rispondere a questa domanda mi viene in mente che la tematica del noi sia davvero molto attuale, cioè che in un mondo che corre dietro ai social ed alla contemplazione di sé, il tornare a parlare del noi, quindi, facendo e mettendo la mia vita al servizio di qualcun altro, partendo con le buone azioni nei lupetti, passando per le relazioni nella squadriglia in reparto fino al servizio in clan, penso che sia davvero uno stile di vita all’avanguardia in questo momento. Così come lo è il fatto che questo noi si realizza e si determina all’interno di una comunità che arde dell’amore che vogliamo donare, un amore che fonda le sue radici nel Vangelo. Questa è la sfida che dovranno intraprendere tutte le associazioni nei prossimi anni e noi non possiamo tirarci fuori da questa dinamica. Per quanto riguarda i genitori, anche io penso che l’unico canale per arrivare a loro sia quello dei figli. Certamente, con le famiglie che condividono maggiormente la vita del gruppo, è chiaro che vediamo che il tessuto della relazione è più fitto e come educatori ci proponiamo di vivere occasioni di fraternità anche con le famiglie, in modo tale da creare più opportunità. Ma le opportunità più grandi sono quelle portate dal ragazzo con i suoi racconti: il bambino con la meraviglia dell’ambiente fantastico, l’esploratore con la meraviglia delle costruzioni del campo e del contatto con la natura ed il rover con le esperienze che si fanno in clan.

Come vive la parrocchia il vostro gruppo?

Piergiorgio: Siamo inseriti in una parrocchia la cui ricchezza sono i gruppi e, come gruppo, siamo molto presenti anche a livello di numeri. Non è sempre un rapporto semplice, perché la nostra è una parrocchia molto attiva e quindi alle volte abbiamo l’impressione di perderci tra le tante cose da fare. Ci proponiamo di rimanere fedeli a quel “noi” che dicevo prima, ma il noi non si deve spendere solo nel fare quelle tante cose, ma anche nell’arrivare alle persone distanti provando, magari, strade diverse rispetto a quelle che si sono sempre percorse.

Valentina: Io ho iniziato a collaborare, sotto suggerimento di Pietro Manni con la parrocchia tramite il catechismo; perciò, ho modo di vivere sia la realtà del gruppo, sia, in parte, quelle legate al catechismo. Grazie a questa mia “doppia vita”, ho avuto modo di vedere quanto la nostra parrocchia sia capillare all’interno della comunità, soprattutto grazie alle tante iniziative proposte come il recente presepe di quartiere o la via Crucis vivente. Tuttavia, delle volte, ho percepito un voler rimanere abbracciati a ciò che è stato, più stabile e sicuro, piuttosto che tentare quel salto verso un qualcosa di più “moderno”. Con questo non dico che le tradizioni siano sbagliate o da non rispettare, al contrario sono dell’idea che le tradizioni debbano essere rispettate e ricordate con piacere, ma, se non sono più funzionali, non trovo utile rispolverarle. Questo è l’unico appunto che mi viene da fare, altrimenti il rapporto con la parrocchia, come gruppo cerchiamo di viverlo come il nostro motto ci insegna: “del nostro meglio per essere pronti a servire“.

Noi crediamo che la sfida, a livello parrocchiale, sia quella di tornare ad occuparsi delle persone, a tornare ad un rapporto più stretto con gli altri, anche perché un rapporto chiaramente non si costruisce con iniziative, ma partendo dalla relazione.

 

 

 

 

 

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