DIOCESI – Gesù nasce per tutti, in modo particolare per chi è ferito, escluso o dimenticato. Il Natale ci chiama quindi a farci prossimi agli altri, specialmente ai più fragili, vivendo la concretezza dell’amore di Dio che si fa piccolo nella mangiatoia per portarci speranza.

È con questo spirito che in questi giorni di festa vogliamo dare voce a chi spesso voce non ha.

Dopo aver toccato il tema della disabilità, pubblicando la lettera di Patrizia Romagnoli e Massimo Martinelli, due genitori in cerca di una struttura accogliente ed attrezzata per la loro figlia che ha una grave disabilità (leggi qui l’articolo: https://www.ancoraonline.it/2025/12/24/il-grido-di-aiuto-di-patrizia-e-massimo-per-la-loro-figlia-con-disabilita-alla-vigilia-di-natale/), e dopo aver affrontato anche il tema della malattia, attraverso la lettera di Marco Marini, un malato di sclerosi laterale amiotrofica (SLA) che comunica con il mondo solo attraverso gli occhi e il sorriso (leggi qui l’articolo: https://www.ancoraonline.it/2025/12/25/video-la-vita-grandiosa-auguri-con-gli-occhi-che-tutti-dovremmo-leggere-di-marco-marini/), oggi vogliamo parlarvi di un mondo silenzioso, spesso invisibile, che ai più è sconosciuto, quello del carcere.

“Nessuna situazione è estranea alla misericordia di Dio”:
dietro le sbarre della Casa Circondariale di Marino del Tronto

«A volte sentiamo la tentazione di essere cristiani mantenendo una prudente distanza dalle piaghe del Signore. Ma Gesù vuole che tocchiamo la miseria umana, che tocchiamo la carne sofferente degli altri. Aspetta che rinunciamo a cercare quei ripari personali o comunitari che ci permettono di mantenerci a distanza dal nodo del dramma umano, affinché accettiamo veramente di entrare in contatto con l’esistenza concreta degli altri e conosciamo la forza della tenerezza».

Così scriveva papa Francesco nell’Esortazione Apostolica “Evangelii Gaudium”, come ci ha ricordato papa Leone XIV nell’omelia pronunciata ieri, 25 Dicembre 2025, durante la Celebrazione Eucaristica da lui presieduta nella basilica di San Pietro.

Ascoltiamo allora la testimonianza di due volontari  che da mesi toccano “la carne sofferente degli altri“, in particolare di quei fratelli che hanno sbagliato e stanno scontando una pena dietro le sbarre della Casa Circondariale di Marino del Tronto, ricordando ai detenuti che nessuna situazione è estranea alla misericordia di Dio e che la speranza può rinascere anche nei luoghi più difficili: Enrico Pascali e Mary Poli.

“Detenuti rapiti dall’omelia del vescovo Gianpiero”:
la testimonianza di Mary Poli

Mary Poli, che ha 44 anni e nella vita fa l’impiegata, da 20 anni fa volontariato in carcere con il Gruppo di Ascolto Caritas. Le abbiamo chiesto di raccontarci la mattinata di ieri, 25 Dicembre 2025, durante la quale il vescovo Gianpiero Palmieri ha celebrato una Santa Messa in carcere con una rappresentanza di circa 20 detenuti, oltre che con alcuni agenti di Polizia Penitenziaria, alcuni operatori carcerari ed alcuni volontari. Queste le sue parole:

“Ho cominciato a fare volontariato in carcere con quando ero giovane, a Gennaio 2006, su invito del direttore della Caritas dell’epoca, don Dante Talamonti.

Da allora è tradizione ormai consolidata che a Natale il vescovo presieda la Messa in carcere. Ieri, in particolare, abbiamo vissuto un momento bellissimo di raccoglimento e preghiera. Abbiamo letto il Vangelo di Giovanni, che, come ci ha ricordato il nostro vescovo Gianpiero, è stato scritto dopo tutti gli altri, intorno all’80 d.C., quando molti di coloro che lo avevano incontrato erano già morti. Eppure Giovanni in quel brano vuole trasmetterci che i discepoli si erano accorti che Gesù era un ‘uomo speciale’, perché aveva una luce particolare negli occhi, perché irradiava una luce da sé.

Immaginiamo la vita dei 12 apostoli insieme a Gesù. Gesù mangiava con loro, camminava con loro, scherzava con loro e faceva tante cose: parlava con sapienza e verità e operava guarigioni. Ma una cosa li aveva colpiti più di altre: Gesù rimetteva i peccati. A quei tempi, nella tradizione ebraica, c’era un giorno dedicato a questo, ‘il giorno dell’espiazione’, durante il quale il sommo sacerdote raccoglieva simbolicamente i peccati e le iniquità di tutti e li addossava ad un capro che poi veniva portato fuori nel deserto. Il vescovo Gianpiero ci ha ricordato che tutti quanti noi abbiamo fatto degli errori e che Gesù non è venuto per i bravi, né per i perfetti, ma per noi, per i peccatori. Egli ha preso la carne umana e ha vissuto la vita come noi, fino a voler essere crocifisso per noi, fino a voler morire, a dare la sua vita umana per liberarci dal peccato, affinché noi avessimo vita e luce.

Il vescovo Gianpiero ha ricordato a noi, agli operatori carcerari e ai detenuti che anche in altri passi biblici si parla dell’aspetto umano di Dio. Ad esempio, quando Abramo e Sara ricevono la visita di tre ospiti misteriosi alle Querce di Mamre, tre giovani che evocano le tre persone della Santissima Trinità, uguali e distinte. Oppure quando Adamo ed Eva camminano nel giardino e si legge che Dio in aspetto umano camminava in mezzo a loro. Ma qui è diverso. Dio sceglie di prendere la carne umana per farsi in tutto e per tutto come noi. Sceglie di nascere e di farsi piccolo, di crescere come noi e infine donarci la Sua vita.

Il vescovo Gianpiero infine ha sottolineato un’espressione del Libro del profeta Isaia: ‘Come sono belli sui monti i piedi del messaggero!’ . I piedi erano la parte del corpo che più si sporcava al tempo di Gesù. All’epoca, infatti, si indossavano i sandali e nei tragitti che si percorrevano a piedi, che spesso erano lunghi e tortuosi, i piedi si impolveravano, si sporcavano. Per questo motivo, alla fine della giornata o prima del pasto, ci si lavava i piedi o si lavavano i piedi agli ospiti. E questo fu anche il gesto che Gesù compì nell’ultima cena verso gli apostoli, un gesto di servizio, ma soprattutto di purificazione dei peccati. ‘Come sono belli i piedi lavati!’: ha detto il nostro vescovo. E come è stato bello vedere i detenuti rapiti dal vescovo Gianpiero mentre diceva loro queste parole! Anche in una prigione si può portare la misericordia di Dio. Anche in una prigione si può portare speranza! Davvero l’Amore di Dio è così grande da attraversare i secoli e travalicare le sbarre di un carcere!

Per completare il dono che questa omelia è stata per noi, il vescovo Gianpiero ha voluto amministrare il Sacramento dell’Eucaristia sotto le due specie del Pane e del Vino. Questo mi ha fatto pensare alla frase della Lettera agli Ebrei in cui è scritto che ‘il sangue di Cristo purifica la nostra coscienza dalle opere morte’ (Eb 9,14). Come scrive anche padre Raniero Cantalamessa nel libro ‘L’Eucarestia nostra santificazione’, i peccati si depositano nel fondo della nostra coscienza come corpi morti. Che sollievo scoprire che c’è un mezzo per liberarsi di questi pesi morti che ci opprimono e che esso è sempre a tua disposizione nel Sacramento Eucaristico! Si tratta di un cammino molto lento che ha bisogno di cura e di tempo, perché i cuori si dischiudano e se ne possano vedere i frutti. Un segno concreto di questi frutti è stata la partecipazione attiva dei detenuti nell’animazione liturgica della Messa, che si è manifestata anche nella lettura spontanea delle preghiere dei fedeli e dei brani liturgici”.

“Legame autentico e profondo tra esseri umani alla pari”:
la testimonianza di Enrico Pascali

Abbiamo incontrato anche Enrico Pascali, già docente di Lettere all’Istituto Stabili-Trebbiani di Ascoli Piceno, che oggi ha 78 anni ed è pensionato. A lui abbiamo chiesto di raccontarci la sua esperienza di volontario in carcere. Queste le sue parole:

“Ho cominciato a fare volontariato in carcere con il gruppo di ascolto Caritas da circa due anni. Ogni Sabato, secondo turni che decidiamo periodicamente, ci rechiamo nella Casa Circondariale di Marino del Tronto e riceviamo le persone che vogliono venire a parlare con noi, per ascoltarle ed aiutarle.

Spesso chi si rivolge a noi lo fa per esigenze concrete, ma sovente capita che si aprano anche parlando delle loro realtà più personali e profonde. Quando riusciamo a metterci veramente in ascolto, con attenzione e senza giudicare, i detenuti si sentono a loro agio e tirano fuori tutto quello che hanno dentro, mostrando la loro fragilità e il loro bisogno primario di essere accolti nel cuore di qualcuno. Cercano principalmente disponibilità ed ascolto, perché uno dei loro problemi principali è la solitudine.

Durante questi due anni di incontro con i detenuti, ci sono stati dei momenti significativi che mi hanno aiutato a capire la realtà del carcere più da vicino.

Alla Messa di Natale dello scorso anno, un ragazzo mi disse che sarebbe uscito da lì a dieci giorni, che non sapeva dove andare e che aveva paura, nel tornare nel suo contesto abituale, di ricadere negli stessi errori. Spesso chi esce dal carcere si trova solo a dover affrontare enormi difficoltà. La pena a volte continua fuori dal carcere a causa dell’etichetta di ‘ex carcerato’, delle barriere normative e della mancanza di supporto. Non è facile per loro trovare una casa e un lavoro. Ovviamente non è per tutti così, ma il problema del fine pena è serio e alcuni di loro si trovano a fare questa esperienza in piena solitudine, senza nessun aiuto dall’esterno. Occorrerebbe un forte impegno sociale e istituzionale per creare canali di reinserimento.

Un altro incontro che mi ha segnato è stato quello con i parenti di un ragazzo che stava nel carcere e che è deceduto in ospedale dopo alcuni giorni di coma. La Caritas li ha ospitati ed io, insieme ad altri,  me ne sono occupato. Con l’aiuto di alcune magnifiche persone che hanno svolto il ruolo di mediazione, abbiamo cercato di seguirli, non solo nelle varie incombenze burocratiche e nella loro esigenze pratiche, ma soprattutto nel loro bisogno di prossimità in un momento difficile. Anche per i parenti non è facile affrontare la vasta gamma di emozioni che possono provare: vergogna, stigma sociale, solitudine, senso di colpa, impotenza e ansia. Sono chiamati ad affrontare il trauma emotivo della privazione della libertà del proprio caro, i problemi economici e le difficoltà pratiche, oltre a dover gestire le relazioni familiari frammentate e spesso a subire anche la condanna morale e gli sguardi giudicanti della società.

In carcere non si fanno belle esperienze, bensì si toccano con mano il dolore e la sofferenza delle persone. Questo ci porta talvolta ad instaurare un legame autentico e profondo tra esseri umani che sono alla pari, al di là delle diverse origini, delle diverse culture, delle diverse fedi e anche al di là degli errori che ognuno di noi può aver fatto o può fare”.

 

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