(Foto AFP/SIR)

Trasformazioni radicali, crisi di senso e dell’educazione. Abbiamo intervistato Mario Pollo, uno dei pensatori più lucidi e profondi in materia di antropologia e sociologia dell’educazione. Per molti anni professore all’Università Lumsa, consulente educativo e autore di numerosi saggi, Pollo ha dedicato la sua ricerca a comprendere l’umano nella sua dimensione progettuale, simbolica e spirituale.

Professore, in una società orientata a successo, performance ed efficienza, abbiamo smarrito il senso dell’educare?
Oggi viviamo una crisi dell’educazione perché la si è confusa con l’istruzione, anzi la si è ridotta a mera istruzione. Quest’ultima, invece, è solo una parte dell’educazione. Educare, infatti non è solo istruire: è

aiutare la persona a costruire il proprio umano e a prendersi cura di sé, degli altri e del mondo.

Quindi l’educazione è un processo antropologico profondo?
Assolutamente sì, non è solo trasmissione di contenuti ma un processo che coinvolge il senso, i simboli, la cultura. L’educazione riguarda l’interiorità della persona, non consiste semplicemente in un adattamento passivo al mondo o in una sorta di acquisizione di abilità per essere performanti, soddisfare i propri bisogni e il proprio io, raggiungere il successo nella vita. Deve partire dalla cura del profondo, aiutando i giovani a scoprire ciò che li rende unici e irripetibili, la loro vocazione, il motivo per cui sono al mondo, il contributo che possono offrire alla società, deve insomma aiutarli a sviluppare e far fiorire la propria umanità.

Educare significa anche aiutare a scoprire il senso della vita?
È far scoprire il miracolo della vita, l’amore per essa, la responsabilità verso tutto ciò che vive intorno a te. L’educazione apre al mistero dell’esistenza, al valore di ogni cosa, interna ed esterna.

È un atto di tutela dell’umanità.

“Chi è l’uomo che vogliamo formare?”. E’ questo l’interrogativo che ogni educatore dovrebbe porsi?
Sì. Oggi, per una malintesa concezione di “multiculturalismo” e di “politically correct”, si evita di proporre uno specifico modello umano, lasciando la formazione al caso e alle esperienze del singolo, senza criteri selettivi. Ma senza un ideale, senza il fondamento di una ben definita visione antropologica dell’uomo e del mondo, senza un progetto educativo che selezioni esperienze e relazioni coerenti con quel modello, si rischia di formare una serie di “robot” funzionali, efficienti, ben addestrati ma incapaci di rispondere alla domanda:

“Chi sono io? Perché sono qui? Qual è il senso del mio vivere?”.

All’interno di questo processo, qual è il ruolo della scuola?
La scuola, da parte sua, è purtroppo malata di “didattichese” e sta privilegiando l’apprendimento “tecnico” per agevolare l’ingresso nel mondo del lavoro a scapito della formazione umanistica. Eppure oggi, ma anche in passato, e lo dico per esperienza personale maturata molti anni fa in una multinazionale, diverse aziende cercano persone con solide basi umanistiche e capacità di apprendimento piuttosto che soggetti con specifiche competenze tecniche già acquisite.

La tecnologia, e in particolare l’intelligenza artificiale, può essere utile nei processi educativi o contribuisce ad una loro “desertificazione”?
Pur avendo modificato la percezione di sé e del mondo, le tecnologie digitali rimangono sempre e comunque uno strumento; dipende quindi dall’utilizzo che ne viene fatto. Se si vuole costruire un super-organismo sociale di cui gli uomini diventino solo delle parti, delle molecole, insomma in un processo di de-umanizzazione, allora l’AI può anche andare bene. Ma se vogliamo restare umani, dobbiamo educare all’uso consapevole della tecnologia: lo strumento giusto nel luogo e nel momento giusto. L’intelligenza artificiale sa elaborare un’enorme mole di dati e creare una sintesi, ma non sa interpretarli. Allo stesso modo non aiuta ad arricchire la propria interiorità, ad entrare più profondamente in relazione con il mondo che si abita: pur non negando i notevoli vantaggi e i progressi che ha consentito in ambito tecnico-scientifico, va affiancata a un’educazione “ricca”, che coltivi empatia, amore, senso.

Al centro deve restare sempre la persona, altrimenti si rischia la sua de-umanizzazione.

In vista del Giubileo del mondo educativo, quale “conversione” è necessaria per tornare a educare?

Per tornare a educare davvero serve una rivoluzione antropologica prima che pedagogica.

Occorre riscoprire e rielaborare il fondamento antropologico dell’essere umano che ha le sue profonde radici nel cristianesimo. Freud affermava che l’educazione è uno dei “mestieri impossibili”; oggi è invece divenuta un mestiere “possibile” perché spesso si limita all’applicazione di una corretta didattica nella cornice di quel malinteso “multiculturalismo” cui abbiamo già accennato. L’educazione, invece, non è neutralità: deve proporre una visione, selezionare esperienze e relazioni che aiutino a rispondere alle domande fondamentali: chi sono, perché vivo, che senso ha il mio esistere.

E’ un atto generativo, un atto di speranza e di fiducia nell’altro.

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