(Foto ANSA/SIR)

Di Maurizio Calipari

Di recente, un gruppo di ricercatori dell’Università di Kyoto e del Weizmann Institute of Science ha pubblicato su Nature uno studio che descrive nuovi progressi nella generazione in vitro di cellule germinali umane a partire da cellule staminali pluripotenti. La notizia ha riacceso il dibattito su una delle frontiere più delicate della biologia contemporanea: la possibilità di creare ovociti e spermatozoi umani in laboratorio, un processo noto come in vitro gametogenesis (IVGa).
In modelli animali – in particolare nel topo – la IVGa ha già permesso la nascita di cuccioli vitali da gameti completamente artificiali. Ma il passaggio all’uomo resta ancora lontano: la biologia della meiosi umana, cioè la divisione che riduce a metà il patrimonio genetico, è estremamente complessa e difficilmente replicabile in vitro.

Ciononostante, la prospettiva di ottenere gameti umani “da zero” affascina molti ricercatori, poiché potrebbe rivoluzionare la medicina della fertilità e ridefinire i confini della riproduzione umana.

Sul piano clinico, la IVGa potrebbe un giorno offrire soluzioni a persone affette da infertilità irreversibile, consentire la genitorialità a coppie dello stesso sesso o preservare la fertilità in età avanzata. Tuttavia, dietro questa promessa si nasconde una sfida antropologica profonda: la possibilità di separare la generazione dalla corporeità personale.
La visione personalista ricorda che la persona umana non è il risultato di un processo tecnico, ma il frutto di una relazione interpersonale incarnata, in cui libertà, affettività e corporeità si intrecciano. La nascita, in questa prospettiva, non è un evento puramente biologico, ma un atto relazionale, che mette in comunione due soggetti e si apre a un terzo. La produzione artificiale di gameti introduce invece la logica della “fabbricazione”: la vita umana rischia di essere percepita come il risultato di un procedimento tecnico, piuttosto che come dono.
L’etica personalista riconosce il valore della ricerca scientifica e della cura dell’infertilità, ma richiama a un discernimento critico: non ogni possibilità tecnica coincide con un bene umano.
Nel caso della IVGa, emergono almeno tre ordini di questioni:

a) la sperimentazione su embrioni umani, inevitabile per testare la funzionalità dei gameti sintetici, che comporterebbe la distruzione di vite umane allo stadio iniziale;
b) la genitorialità disincarnata o indifferenziata, che potrebbe derivare dall’uso di gameti derivati da cellule di uno stesso individuo o da due persone dello stesso sesso;
c) la logica di controllo genetico, favorita dalla possibilità di selezionare e combinare gameti in modo programmato.

In ciascuno di questi casi, l’essere umano viene trattato come oggetto di manipolazione, piuttosto che come soggetto di relazione. Il corpo, che nella visione personalista è parte integrante della persona, viene ridotto a materia prima biologica disponibile, e l’atto generativo si separa dalla sua dimensione etica e simbolica.

La prudenza, virtù cardine della bioetica personalista, non è chiusura al progresso, ma discernimento morale. Essa impone di chiedersi non solo “se” possiamo fare qualcosa, ma “perché” e “a quale fine” la facciamo.

Ogni innovazione deve essere misurata sulla dignità della persona, che precede e fonda ogni diritto alla genitorialità. Il desiderio di avere un figlio, pur legittimo, non può trasformarsi in diritto assoluto a “produrlo” con qualsiasi mezzo.
Finché la ricerca sulla gametogenesi in vitro non potrà garantire la piena tutela di ogni soggetto coinvolto – dai gameti all’embrione, dai genitori ai figli futuri – il suo impiego clinico dovrà rimanere nel campo della sperimentazione di base (non su modello umano), sorretto da rigorosi limiti etici e giuridici.
Probabilmente, la IVGa rappresenta una delle più audaci avventure della biomedicina contemporanea. Ma la misura del progresso non risiede nella capacità di superare i limiti naturali, bensì nella sapienza di riconoscerli come parte del mistero della persona umana.
La scienza è autenticamente umana quando non si riduce a potere sul vivente, ma rimane “a servizio della vita”. Solo in questa direzione la generazione, anche quando sostenuta dalla tecnica, potrà continuare a essere un atto profondamente umano.

Entra a far parte della Community de L'Ancora (clicca qui) attraverso la quale potrai ricevere le notizie più importanti ed essere aggiornati, in tempo reale, sui prossimi appuntamenti che ti aspettano in Diocesi.

0 commenti

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *