DIOCESI – “Non possiamo restare in silenzio” non è solo una citazione dell’appello per la pace nel mondo che i vescovi di Italia, Slovenia e Croazia hanno sottoscritto lo scorso Settembre a Gorizia.

E non è neanche solo il titolo dell’incontro pubblico che si è tenuto ieri, Martedì 14 Ottobre, presso l’auditorium della chiesa di San Vittore in Ascoli Piceno, sulla drammatica situazione in cui versa Gaza, tra macerie, crisi umanitaria, censura dell’informazione e difficoltà della solidarietà.

Non possiamo restare in silenzio” è anche e soprattutto un grido di pace che si è elevato ieri sera dal nostro territorio e che attraversa tutto il mondo. Un grido di pace rivolto non solo a Gaza, ma a tutte le altre zone del pianeta insanguinate dalla guerra, come l’Ucraina e gli altri 57 Paesi in cui sono in corso dei conflitti. Un grido di pace che interpella il cuore di tutti di fronte alla disumanità, all’ingiustizia, alla sopraffazione, anche quando queste sembrano non riguardarci da vicino. Un grido di pace che urla il nostro “no” alla guerra, all’iniquità, alla prepotenza, all’annientamento della dignità della persona. Un grido di pace a cui siamo chiamati perché mossi da un sentimento autentico di compassione, nel senso etimologico del termine di partecipazione e condivisione della sofferenza altrui, consapevoli che ogni vita umana ha valore e certi che questo appello non possa restare inascoltato o ignorato.

Si possono riassumere così gli interventi dei quattro illustri ospiti che hanno portato la loro testimonianza durante  il consesso ascolano, moderati  dal procuratore capo della Repubblica di Ascoli Piceno Umberto Monti:
Raffaela Baiocchi, ginecologa e responsabile medico di Emergency a Gaza;
Pierfrancesco Curzi, giornalista freelance e inviato di guerra;
Danilo Feliciangeli, referente per il Medio Oriente e Nord Africa di Caritas Italiana, che ha illustrato i progetti di cooperazione e gli interventi di aiuto umanitario attivi nella Striscia;
S.E. Mons. Gianpiero Palmieri, vicepresidente della CEI (Conferenza Episcopale Italiana) e vescovo delle Diocesi di Ascoli Piceno e di San Benedetto del Tronto -Ripatransone – Montalto, che ha concluso con una riflessione sul dovere morale e cristiano della solidarietà.

L’iniziativa, che è stata introdotta dal direttore della Caritas diocesana di Ascoli Piceno Giorgio Rocchi e che ha registrato una grande partecipazione di pubblico, è nata dalla collaborazione tra numerose realtà del territorio: le Diocesi del Piceno, le Caritas Diocesane, Radio Ascoli, L’Ancora, le ACLI, la Consulta dei Laici, l’Ordine dei Giornalisti delle Marche, l’Ordine dei Medici e Odontoiatri di Ascoli Piceno, l’associazione Libera e la Bottega del Terzo Settore.

“Perché la memoria del male non riesce a cambiare l’umanità?”:
la risposta del procuratore Umberto Monti alla domanda di Primo Levi

L’incontro si è aperto con le parole di Giorgio Rocchi, il quale ha ricordato alcuni passi del comunicato di adesione dell’Associazione Magistrati Marche al manifesto dei giuristi italiani: «Non si può rimanere indifferenti rispetto a quanto sta accadendo davanti agli occhi di tutti e riteniamo doveroso che le istituzioni adottino le iniziative necessarie a ripristinare il rispetto dei diritti fondamentali della popolazione palestinese e le basi del diritto internazionale. Per la situazione di Gaza avvertiamo dunque l’esigenza di testimoniare il nostro sgomento e richiamare con forza i valori del rispetto della vita umana, della dignità e dei diritti fondamentali». Il comunicato di adesione – ha concluso Rocchi – si chiude con un interrogativo dello scrittore Primo Levi, superstite dell’Olocausto: «Perché la memoria del male non riesce a cambiare l’umanità? A che serve la memoria?»”.

Sollecitato dalle parole di Rocchi, il procuratore della Repubblica Umberto Monti, che è anche presidente dell’Associazione Magistrati Marche, prima di passare la parola ai relatori, ha detto: “Questo interrogativo di Primo Levi dobbiamo mettercelo in testa, dobbiamo viverlo! Non possiamo fare convegni sui massacri più terribili che ci sono stati nel passato – che pure sono ricordi doverosi – e chiederci: «Ma come è potuto succedere? Come è possibile che nessuno abbia detto niente?», se poi non reagiamo di fronte a quello che sta succedendo oggi nel mondo. Ebbene, com’è possibile che da due anni stia succedendo questo a Gaza?”.

Monti non ha usato mezzi termini e ha definito il massacro di Gaza come un “terribile genocidio”. Ha spiegato: “Oggi mi trovo in questa veste di moderatore che non è esattamente il ruolo che più mi si confà, però, visto che ci sono, voglio dire che si può essere immoderati non solo per eccesso ma anche per difetto, cioè usando parole troppo tenui quando ci sono fatti troppo gravi. La moderazione, invece, è proporzionalità. Quindi l’immoderato non è solo chi alza un tono e si indigna, bensì è molto più immoderato l’indifferente. A Gaza, un lembo di terra 9 volte più piccolo della Valle d’Aosta, sono stati uccisi oltre 66mila Palestinesi, di cui il 90% – e forse anche di più – di civili. Questi due anni non sono stati anni di guerra, perché la guerra presuppone che ci siano due eserciti, mentre a Gaza c’è stato un unico esercito che ha abbattuto case e strutture civili. I bambini uccisi sono 20mila e ce ne sono 42 mila feriti, di cui 20mila rimarranno disabili per sempre. Sono stati uccisi 1.700 operatori sanitari e 250 giornalisti”.

“Non facciamo cadere il silenzio su Gaza”:
l’appello della dott.ssa Raffaella Baiocchi di Emergency

La prima ospite ad intervenire è stata la dott.ssa Raffaella Baiocchi, che collabora con Emergency dal 2007, da dieci anni è anche responsabile dei progetti di salute della donna nella divisione medica della celebre associazione umanitaria italiana fondata da Gino Strada.

La relatrice, che è specializzata in Ginecologia ed Ostetricia ed ha operato anche in altri scenari critici, come l’Afghanistan e il Sudan, ha illustrato la situazione attuale nella Striscia di Gaza, raccontando la sua esperienza diretta sul campo: “Ho trascorso gli ultimi giorni nelle scuole per portare la mia testimonianza. Forse è un bene che questi incontri stiano avvenendo adesso, in questo tempo di tregua, perché, ora che le bombe hanno smesso di cadere, potrebbe cadere un’altra cosa altrettanto terribile come le bombe: il silenzio.

Tutto quello che le armi hanno smesso di fare di fronte all’indignazione mondiale, infatti, ora purtroppo potrebbe essere compiuto dalla carestia che sta sfiancando il popolo palestinese. Solo l’1,5% dei terreni destinati all’agricoltura ed all’allevamento è rimasto intatto. Più del 70% della flotta dei pescherecci è stato distrutto. Pertanto anche l’approvvigionamento locale, che è già difficile in tempo di pace, ora è reso ancora più complicato. Immaginate quindi una piccola lingua di territorio che per metà è ancora sotto occupazione militare e che ospita 2 milioni di persone che non hanno da mangiare.

Attualmente, nella Striscia di Gaza, calcolando il suolo realmente calpestabile – escludendo quindi i luoghi con le macerie e le aree militari – ogni persona ha un metro e mezzo quadrato su cui stare, tanta è la densità di popolazione. Ho visto personalmente tutte le malattie indotte dalla condizione di sovraffollamento. Più del 60% della popolazione ha pidocchi, acari e pulci. Le fognature sono saltate, quindi nell’aria c’è un forte fetore e l’acqua è contaminata. L’età media della popolazione si è molto abbassata, è di 20 anni. Le donne, soprattutto ragazze,  non hanno un bagno, né l’acqua corrente né il sapone e ogni mese hanno il ciclo senza poter indossare assorbenti e senza potersi lavare”.

La dott.ssa Baiocchi ha concluso il suo intervento sottolineando, oltre alla sofferenza, anche la resilienza che contraddistingue la popolazione civile: “Quelle che vivono sono situazioni che sicuramente non uccidono il corpo, ma uccidono la dignità delle persone. Eppure la popolazione mostra una forza grande, una tenacia immensa e una dignità incredibile“.

“A Gaza nessun giornalista può sentirsi al sicuro”:
le riflessioni del reporter di guerra Pierfrancesco Curzi

L’incontro è proseguito con la testimonianza di Pierfrancesco Curzi, giornalista e scrittore con oltre 30 anni di esperienza, noto per i suoi reportage internazionali di guerra con i quali ha documentato conflitti e crisi umanitarie in Iraq, Siria, Libano, Turchia, Egitto, Tunisia ed Ucraina. Il relatore, che è stato anche osservatore durante le elezioni in Nicaragua nel 2006 e in Guatemala nel 2007 e che oggi collabora con testate prestigiose come “Il Fatto Quotidiano” e “Il Resto del Carlino” di Ancona, ha offerto uno sguardo sulla difficile realtà del conflitto da un punto di vista giornalistico, sottolineando le sfide che l’informazione deve affrontare, soprattuttto se fatta da un’area di crisi.

Ha detto il giornalista: “L’Italia non è tra i primi posti al mondo per quanto riguarda la libertà di stampa. La libertà di stampa non è solo quella di poter scrivere o poter avere accesso ad un mezzo divulgativo. Anzi la mancanza di libertà parte proprio dalle piccole realtà. Lo posso testimoniare sia come piccolo cronista delle Marche sia come reporter dalle zone di guerra. Il problema nasce dalla linea editoriale che ogni Giornale vuole avere. Oggi, inoltre, tutti si improvvisano giornalisti attraverso i social: è quindi importante verificare le fonti e l’affidabilità di chi scrive”.

Ha poi proseguito Curzi: “Di fronte ai fatti che stanno accadendo in Medio Oriente, una delle critiche che io mi sento di fare ad alcuni giornalisti e ad alcuni conduttori di talk show,  è quella di dover garantire per forza il confronto tra le due parti. Io credo che invece questo sia il male assoluto.  Di fronte, infatti, a dei fatti che accadono nel mondo, come ad esempio l’aggressione da parte di Israele alla popolazione civile di Gaza, non ci può essere contraddittorio. Non sempre alcune posizioni sono sostenibili. Su alcune questioni non si può discutere”.

In merito al conflitto israelo-palestinese, Curzi ha detto: “A Gaza i giornalisti esteri non possono entrare. Quello che noi conosciamo, lo sappiamo grazie alla forza dei colleghi che sono sulla Striscia e che, con grande coraggio, hanno permesso al mondo di vedere quello che sta succedendo da loro. In una zona di conflitto bellico, la situazione non può mai essere sicura al 100%. Però in genere, in altri Paesi, come ad esempio in Ucraina o in Iraq, ci sono delle zone calde dove andare è pericoloso, mentre sul resto del territorio si vive o viveva in una dimensione diversa, dove c’era una discreta protezione. A Gaza, invece, in un lembo così ristretto di terra,  nessuno poteva mai sentirsi al sicuro”.

“Il nostro mandato è di sentirci responsabili dei nostri fratelli”:
l’invito di Danilo Feliciangeli di Caritas italiana

La parola è passata poi a Danilo Feliciangeli, il responsabile per il Medio Oriente e il Nord Africa di Caritas Italiana, che coordina sul campo le equipe che si occupano di progetti di emergenza e di sviluppo in Siria, Gaza, Libano, Palestina, collaborando con i partner locali per fornire aiuti medici, supporto psicosociale, assistenza familiare. Il suo impegno è anche orientato verso attività di advocacy istituzionale, sensibilizzando l’opinione pubblica sulle crisi umanitarie.

Ha detto Feliciangeli: “Per poter parlare di futuro, dobbiamo per forza parlare del passato, di quello che è accaduto a Gaza negli ultimi due anni. Anche se al momento c’è una tregua, ieri è stato ucciso l’ultimo giornalista. Un’omicidio mirato. Stamattina sono morti alcuni bambini su delle bombe inesplose. Alcuni dicono che si sia trattato di mine lasciate a Gaza. In questo contesto noi portiamo la nostra solidarietà, una parola che deriva dal latino “solidum” e che viene usata principalmente nell’espressione “in solidum“, termini che indicavano un vincolo indivisibile e la responsabilità di un debito per l’intero. Noi tante volte fraintendiamo il significato della parola solidarietà. Pensiamo di dover aiutare le persone che non hanno il cibo necessario, una casa, beni materiali. Il nostro mandato, invece, è quello di cambiare le cose, di lottare per i diritti, di far sì che le cose che non vanno bene non accadano più. Ecco perché, oltre ad aiutare materialmente chi a Gaza vive certe situazioni, siamo chiamati anche a sentirci responsabili di un debito per l’intero. Quale debito? Tanti amici Palestinesi mi hanno detto: ‘Noi Palestinesi stiamo pagando il vostro debito, il debito che voi avete fatto con gli Ebrei con l’Olocausto’. Un debito che noi abbiamo con la storia, con gli Ebrei e che ora, da due anni, abbiamo con i Palestinesi. Da due anni, infatti, assistiamo inermi a quello che sta succedendo a Gaza”.

Feliciangeli ha ricordato che Caritas conosce bene questo debito, essendo presente in 162 Paesi nel mondo: “A Gaza, in particolare, abbiamo 126 volontari. 2 purtroppo sono morti. Il messaggio che allora voglio darvi oggi è che dobbiamo sentirci corresponsabili di quello che sta succedendo. E questo è possibile solo se ci sentiamo fratelli, figli di una stessa appartenenza, figli della stessa famiglia umana o figli dello stesso Dio, se siamo credenti”.

Il referente di Caritas ha concluso con le parole di un’amica e collega palestinese che lavora al centro di Betlemme per il dialogo interreligioso: “La pace non è un dono improvviso calato dall’alto, ma il processo paziente che nasce dal basso, come un seme fragile piantato in una terra ferita, un seme che ha bisogno di cura, coerenza e tenacia, per poter crescere  e dare frutto“.

“Il lavoro per la pace chiede di sradicare tutte le visioni fondamentaliste”:
le conclusioni dell’arcivescovo Gianpiero Palmieri

A concludere gli interventi è stato l’arcivescovo Gianpiero Palmieri, il quale, attraverso alcuni ricordi personali, ha tracciato un breve sunto del lungo cammino compiuto dalla Chiesa per cercare di portare la pace in Medio Oriente.

Quando ho visitato la Terra Santa, è stato bello vedere anche i segni della pace che c’erano ed erano tantissimi – ha detto mons. Palmieri -: villaggi in cui Ebrei e musulmani vivevano insieme, in cui i bambini imparavano a conoscere le feste cristiane, musulmane ed ebraiche. Negli anni, invece, abbiamo assistito ad una lenta erosione dei territori palestinesi“.

Forse in questi anni non abbiamo vigilato – ha proseguito il vescovo Gianpiero -. Lo scopo dei papi, infatti,  è sempre stato quello di far incontrare i leader religiosi per dire che le religioni, nei loro testi e nelle loro tradizioni, non vogliono la guerra. Questo, però, significa combattere nemici interni, che vogliono invece fornire visioni fondamentaliste. Il lavoro per la pace chiede di sradicare tutte quelle visioni di parte, fondamentaliste, che usano la religione in maniera strumentale per motivare la guerra“.

Ha aggiunto l’arcivescovo: “Anche io, come i relatori che mi hanno preceduto, sono molto contento delle manifestazioni che ci sono state e concordo anche sul fatto che abbiano contribuito alla tregua sottoscritta. Dobbiamo però fare molta attenzione a come queste vengono riportate dai media. L’interpretazione parziale, manipolata, dove si individuano i cattivi e all’improvviso tutta la categoria diviene cattiva, è uno stratagemma vecchio come il mondo”.

Mons. Palmieri ha infine concluso: “Grazie a tutti per questa riflessione condivisa che ci permette di sentirci vicinissimi a tutto il popolo palestinese e al popolo israeliano che amiamo tantissimo. Amiamo profondamente quella terra e quei popoli. Vi invito dunque a pregare insieme per la pace. Non lo dico per dovere d’ufficio, ma per profonda convinzione. C’è qualcosa di reale che avviene, anche se in maniera intima e sommersa, quando persone – anche di religione diversa – pregano intensamente per la pace. Qualcosa avviene, qualcosa che è affidato al cuore di Dio“.

Al termine dell’incontro, fuori dall’auditorium, alcuni giovani esponenti di “Piceno per la Palestina” hanno manifestato pacificamente con striscioni e slogan.

 

 

 

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