(Foto AI)

Tokyo – “Evaporati”, è la traduzione italiana di ‘Jōhatsu’, termine specifico con il quale in Giappone si indicano le persone che scompaiono volontariamente. Usato comunemente nelle scienze fisiche, chimiche e meteorologiche, è composto dal kanji Jō, che significa vapore, e Hatsu, emissione, rilascio, quindi ‘rilascio di vapore’ o, appunto, ‘evaporazione’.
Nakamori Hiroki sociologo, docente universitario e autore del libro “Sociologia della scomparsa,- 2017”, uno dei maggiori studiosi ed esperti nipponici dei jōhatsu ne ha tracciato nei suoi scritti la storia.
Furono i media nipponici a sdoganare il termine negli anni sessanta per indicare metaforicamente il fenomeno delle persone che “svaniscono nel nulla”, attraverso l’immagine di una dissoluzione silenziosa e irreversibile come se evaporassero dalla loro vita. Spesso il vocabolo era associato a ‘tsuma’, che vuol dire moglie, poiché molti casi riguardavano donne che sparivano per fuggire da una vita coniugale diventata insostenibile per violenze domestiche o per altre situazioni di forti disagi familiari.
In ambito accademico lo studio di quesa patologia sociale, spiega Nakamori, iniziò proprio in quegli anni ed i sociologi cominciarono ad usare jōhatsu come termine tecnico.
“Non avevo altra scelta che morire o scappare”, “Non riuscivo a dormire per la paura della riscossione dei debiti”, “Non riuscivo a guardare in faccia la mia famiglia” sono alcuni esempi delle “voci”
raccolte dal sociologo Miyama Hideaki che ha indagato e descritto le molteplici e dolorose motivazioni di chi sceglie di sparire: fallimenti personali o professionali, situazioni debitorie o difficoltà economiche pesanti, dinamiche matrimoniali o familiari compromesse, desiderio di ricominciare da capo e “resettare” la propria vita o di sfuggire a una routine lavorativa opprimente. La narrazione del fenomeno dei jōhatsu in Italia e in altri Paesi occidentali, condizionata dagli stereotipi consolidati sul Giappone che ne enfatizzano un’immagine di Paese rigido e schematico, lo fa percepire come esclusivo del Sol Levante a discapito di una comprensione della complessità del problema e dei processi di cambiamento in atto. Certamente il dato che a seconda delle fonti oscilla tra le 80.000 e le 100.000 persone dichiarate scomparse ogni anno è notevole ma tuttavia, per molti esperti, non sufficiente a dimostrare che le sparizioni volontarie siano una prerogativa giapponese. Negli Stati Uniti, ad esempio, le statistiche ufficiali parlano di circa 600.000 persone scomparse all’anno, in Germania 100.000, nel Regno Unito 150.000 mentre in Italia è quasi di 62.000 il saldo “storico” cumulativo ad oggi delle persone scomparse. Un fenomeno globale dunque con cause simili anche se il Giappone ha sicuramente delle sue peculiarità che lo caratterizzano: già la attribuzione di un nome specifico, jōhatsu, per definirlo è un indicatore di un’attenzione culturale distintiva; poi le società di servizi
specializzate chiamate Yonigeya, “Compagnie di fuga notturna”, che aiutano a sparire in segreto, offrendo traslochi notturni, nuovi alloggi, documenti falsi e consulenze per ricominciare una vita altrove; la severa legislazione sulla privacy che ostacola le ricerche dei familiari o di investigatori privati, tranne che in caso di reato; i quartieri fantasma delle grandi metropoli, come Sanya a Tokyo o Kamagasaki a Osaka, cancellati dalle mappe ufficiali ed ai limiti della legalità
che garantiscono l’anonimato.
Marco Del Bene, Docente universitario specializzato in studi orientali ed in particolare sul Giappone, sostenendo la non esclusività di alcuni fenomeni sociali, jōhatsu inclusi, affermava in un suo intervento; “l’unica generalizzazione possibile è che il Giappone con la sua capacità di proiettarsi nel futuro è una sorta di laboratorio sociale in cui si manifestano precocemente fenomeni e tendenze che prima o poi interessano con modalità e intensità diverse tutte le società ricche ed avanzate”.
I jōhatsu dunque sono un fenomeno complesso e globale che si situa tra la disperazione e la speranza, con radici nel cuore malato dell’uomo.
Papa Francesco nel 2019 in Giappone invitava la Comunità cattolica a “creare spazi in cui la cultura dell’efficienza, della prestazione e del successo “ cedesse il passo alla *cultura di un amore gratuito e altruista* capace di offrire a tutti, e non solo a quelli “arrivati”, la possibilità di una vita felice e riuscita”.
E Papa Leone XIV il 17 giugno scorso, richiamando la Chiesa a riscoprire nel Kerigma ‘la sorgente da cui deve sgorgare ogni azione pastorale, ogni catechesi, ogni gesto ecclesiale’ ha indicato il Cammino perché ciò che auspicava il suo predecessore si realizzi. “Il Kerigma non è una formula, ma un incontro – affermava Papa Leone XIV- È la voce del Risorto che chiama per nome.” Questa chiamata personale è ciò che manca nella vita di molti jōhatsu che, schiacciati dal loro vissuto non si sentono più amati, nè chiamati per nome tanto da voler sparire. Ma la loro sparizione spesso nasconde una richiesta silenziosa di aiuto. Il Kerigma, allora, è la Buona Notizia che solo la Chiesa può offrire a chi ha scelto di dissolversi.

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