DIOCESI – Lectio delle Sorelle Clarisse del Monastero Santa Speranza di San Benedetto del Tronto.
Oggi, la Chiesa, celebra la festa della Esaltazione della Santa Croce. È una festa nella quale c’è tutto il paradosso della fede cristiana, a partire dagli stessi termini, esaltazione e croce, che sembrano l’uno l’opposto dell’altro.
Infatti, che senso può avere celebrare una festa così in una società, come la nostra, sempre alla ricerca del massimo benessere, della comodità, di ogni confort? Come è possibile esaltare la croce?
La croce è il supplizio più terribile e più infamante riservato dagli antichi romani agli schiavi.
Anche noi, oggi, usiamo la parola “croce” in termini negativi: per indicare una persona, una cosa, una situazione che siamo costretti a sopportare, che ci arreca sofferenza o che ci è fastidiosa e molesta. Nel linguaggio comune è difficile scorgere in questa parola una valenza positiva; eppure, il segno della croce è una delle prime cose che impariamo da piccoli e che ripetiamo spesso, anche in circostanze molto belle: battesimi, cresime, matrimoni e, magari, anche quando ci mettiamo a tavola per un buon pranzo di famiglia.
Ascoltiamo alcuni passi del prefazio che la Chiesa, oggi, in occasione di questa festa, ci fa pregare durante la messa: “Nell’albero della croce tu hai stabilito la salvezza dell’uomo, perché donde sorgeva la morte di là risorgesse la vita, e chi dall’albero traeva vittoria, dall’albero venisse sconfitto”.
La croce, questo strumento di supplizio, per tanto tempo oggetto di infamia, diventa per i cristiani la gloria e San Paolo, come canta l’antifona di ingresso della Messa, non fa che gloriarsi «se non della Croce di Gesù Cristo, nostro Signore: egli è la nostra salvezza, vita e resurrezione; per mezzo di lui siamo stati salvati e liberati».
La festa di oggi vuole celebrare, infatti, il mistero di amore che su di essa si è compiuto, l’atto infinito di amore compiuto da Gesù, l’espressione più alta di quello che il nostro Dio ha provato, prova e proverà sempre per ciascuno di noi: «Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui».
Ce lo testimonia San Paolo, nella seconda lettura tratta dalla lettera ai Filippesi. Egli descrive proprio questo abbassamento di Cristo che, pur essendo di natura divina, si fa uomo, si consegna nelle mani degli uomini. Gesù, sulla croce, è schiacciato dal mistero del male tanto da morirne, ma proprio così lo vince dall’interno. A questo itinerario di svuotamento di sé corrisponde l’azione di Dio Padre che per questo lo esalta e lo costituisce Signore di tutte le cose stabilendo che solo nel nome di Gesù c’è salvezza.
Questo mistero Gesù cerca di farlo comprendere anche a Nicodemo, un dottore della legge, discepolo clandestino del Maestro. Il Signore cita a Nicodemo un episodio accaduto durante il cammino di Israele nel deserto, dopo l’uscita dall’Egitto. Il popolo alterna momenti di gioia, di entusiasmo, di fiducia, di coraggio a momenti di delusione e sconforto. In questa occasione, non sopportando più il viaggio, il popolo se la prende con Dio e con Mosè: «Perché ci avete fatto salire dall’Egitto per farci morire in questo deserto? Perché qui non c’è né pane né acqua e siamo nauseati di questo cibo così leggero». Dio «mandò fra il popolo serpenti brucianti i quali mordevano la gente, e un gran numero di Israeliti morì». Ma poi, su intercessione di Mosè, Dio comanda al profeta stesso di fare un serpente di bronzo e metterlo sopra un’asta. «Chiunque sarà stato morso e lo guarderà, resterà in vita».
Proprio lo strumento di morte diventa così paradossale mezzo di salvezza.
Come quel serpente innalzato sul bastone, così Gesù crocifisso sulla croce porta salvezza e redenzione a coloro che credono in lui, «perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna»
Alziamo, allora, con fiducia i nostri occhi verso la croce del Signore, là troveremo la salvezza che il Padre ci ha promesso.




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