DIOCESI – Sulle pagine dell’Espresso, Antonio Spadaro ha recentemente riportato al centro una domanda che negli ultimi anni ha prodotto un crescendo di inquietudini, e che oggi ancor più assume un’urgenza inedita: quale spazio resta al sacro, in un mondo in cui le intelligenze artificiali sembrano insinuarsi in ogni piega della vita quotidiana, persino nei territori della spiritualità?
È una provocazione fertile che invita non solo a difendere ciò che resta, ma a interrogarsi su come custodire e rinnovare lo spazio di apertura al sacro, quella dimensione – al contempo corporea e metafisica – destinata allo spazio di preghiera.
A partire proprio dalle sollecitazioni di Spadaro, i Matti di Sànpert intendono avviare una riflessione che non si limiti alla denuncia dei rischi relativi alla possibile disumanizzazione provocata dall’AI, ma che provi a definire – con concretezza e cura – i confini di ciò che non può essere affidato a una macchina. I tecnicismi dell’apprendimento automatico e le sorprendenti capacità di simulazione linguistica non possono in alcun modo cancellare la domanda fondamentale: cosa rende sacro un incontro, una parola, un gesto?
Qui entra in gioco la distinzione tra forma e sostanza.
Le macchine sanno imitare forme – ripetere magari persino le preghiere, intonare frasi di conforto, riprodurre ritualità in avatar e interfacce –, ma non possono abitare la fragilità, non possono essere responsabili, non possono aspettare fedelmente, non possono patire insieme; non hanno storia di vita, memoria incarnata, debiti morali o responsabilità personali. È attorno a questi tratti che si configura la delineazione dello spazio spirituale: non per respingere la tecnologia fuori dal nostro orizzonte quotidiano, ma per impedire che la dimensione del senso venga catturata e mercificata in funzioni ottimizzate.
Allo stesso tempo, rifiutiamo una posizione nostalgica che neghi ogni possibile valore agli strumenti digitali: la tecnologia può essere uno specchio che ci mostri i nostri desideri e i nostri limiti, uno strumento che ampli l’accesso alle pratiche spirituali, che faciliti la traduzione di testi sacri o l’accompagnamento di persone isolate; ma perché questo accada in modo etico occorrono principi e pratiche pensati ad hoc.
In primo luogo, crediamo sia di fondamentale importanza affermare un criterio eminentemente umano: la non-sostituzione. Ci sono compiti che l’assistenza algoritmica può svolgere – accompagnare nella pratica quotidiana, ricordare appuntamenti, fornire risorse educative – ma non può assumersi la responsabilità ultima dell’accompagnamento spirituale, né dovrebbe essere presentata come guida autoritativa in questioni esistenziali.
Per affrontare questioni così urgenti, condividiamo la proposta di Spadaro di istituire tavoli interreligiosi e interdisciplinari per stabilire linee guida condivise fra chi è interessato a riflettere sul sacro e sulla dimensione spirituale, ma riteniamo anche che non basti e che il passaggio successivo debba concretizzarsi nella creazione di laboratori di sperimentazione dove artisti, mediatori culturali e sviluppatori costruiscano rituali ibridi che non appiattiscano la dinamica operativa dell’IA sull’efficienza.
Il discrimine dovrà essere il principio della dignità: la tecnologia che aumenta la libertà e la responsabilità delle persone è utile; quella che la sostituisce o la impoverisce è inaccettabile. Sul piano teologico e filosofico occorrerebbe lavorare sul concetto di sacro come apertura e mutuo riconoscimento: il sacro non è semplicemente un insieme di simboli, ma la forma attraverso cui una comunità si consegna, si impegna e si rende partecipativa.
Se il digitale tende a standardizzare le esperienze riducendole a metriche riproducibili ovunque, la nostra risposta dovrà andare nella direzione opposta: la cura della singolarità, con rituali che valorizzino la storia personale, pratiche di memoria collettiva che non siano outsource a un cloud, pratiche liturgiche che restino radicate nel corpo e nello spazio, e non replicabili in modo asettico e sistematico.
Non si tratta di erigere barriere nostalgiche che non servirebbero a niente, ma di tracciare percorsi di responsabilità condivisa, dove la tecnologia sia uno strumento al servizio di relazioni umane vive e non la superficie che le sostituisce. Se si opera con questo spirito, possiamo accogliere le potenzialità dell’epoca digitale senza rinunciare a ciò che ci rende veramente umani, custodendo quei terreni di esperienza – il silenzio abitato, la promessa, la responsabilità – che nessun algoritmo potrà mai realmente incarnare.





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