Di Alessandro Pertosa

DIOCESI – In un tempo che pretende spiegazioni chiare e sistematiche, dove ogni cosa deve avere una sua lampante giustificazione, un suo perché razionale, un suo fondamento dimostrabile, la verità profonda e poliedrica della vita, che si dispiega nel mondo e che quindi si trasforma e muta, si palesa timidamente nel balbettio del linguaggio, nel disordine del pensiero, nella fenditura dell’attimo. È in quello spazio esistenziale e metafisico, carico di desiderio e di passione, che si apre uno spiraglio imprevisto per una forma di teologia non accademica, non sistematica, non analitica: una teologia rapida, per dirla con la felice intuizione di Antonio Spadaro. Ma per comprendere appieno cosa si intende per teologia rapida, è necessario svuotare l’aggettivo «rapida» da ogni possibile equivoco. Rapida non come veloce o sbrigativa, non come comunicazione efficace o spiritualità fast-food, ma rapida nel senso etimologico più antico e profondo, come ciò che rapisce, che strappa, trascina. Un teologia quindi che accade nel bel mezzo dello stupore, flusso che non si lascia addomesticare, che non si organizza in trattati, ma al contrario sgorga come un’improvvisa crisi del dire, un cortocircuito dell’intelletto che spalanca lo sguardo sull’incanto dell’indicibile.

La teologia rapida, proprio per questa sua caratteristica, ha una chiara dimensione poetica e al contempo ammicca alla filosofia. Non alla filosofia sistematica, al pensiero rigorosamente razionale e ideologico, bensì alla filosofia come scossa vitale, e che invece di costruirsi per addizione di concetti, evolve per sottrazione, per svuotamento. È ciò che resta del pensiero quando il pensiero, spingendosi fino in fondo, scopre il suo limite costitutivo: l’impossibilità di dire l’assoluto, la radicale contraddittorietà del reale, il fallimento della logica quando incontra l’enigma.

Questo tipo di teologia filosofica si avvicina allora, per struttura, all’aforisma. Come l’aforisma, non spiega anzi esplode. Non collega, taglia. Non elabora, incide. L’aforisma, frammento di pensiero consegnato all’ignoto, dice sempre troppo e troppo poco: è una fessura nel linguaggio, è un’interruzione che apre alla meraviglia del tutto che vibra senza lasciarsi dire.

Allo stesso modo, la teologia rapida parla in fratture, in fenditure, in lampi. Non insegna nulla in senso didattico, ma mette in crisi. È un pensiero che non conforta, che non pacifica, che non cerca di rassicurare con un’immagine ordinata del mondo e di Dio, ma al contrario espone al paradosso, al rovesciamento, all’ambiguità costitutiva dell’esperienza umana e spirituale. La sua verità non è da possedere, ma da interiorizzare. Per questo è un pensiero che si dà solo nella crisi: nella notte del concetto, nell’inadeguatezza del linguaggio, nella vertigine del non sapere. È una teologia rapida perché non parte da premesse, non giunge a conclusioni, non dimostra nulla. Semplicemente accade come un vortice. È un pensiero che prende corpo quando tutto il resto viene meno, quando la ragione non basta più e l’ordine del discorso si dissolve.

Questa forma di teologia non cerca risposte, tutt’al più varchi. Non cerca fondamenti, ma abissi. Non pretende di dire cosa sia Dio, ma tenta disperatamente di stare nel luogo dove Dio si è appena sottratto. In questo senso, mi sembra di poter dire che la teologia rapida guardi con decisione all’opzione apofatica, alla via negativa, a quella modalità del pensare Dio che si fonda sul dire ciò che Egli non è, piuttosto che sull’illusione di poter affermare ciò che è. È l’opposto della teologia catafatica, che pretende di attribuire a Dio proprietà, nomi, qualità positive, come se l’infinito potesse essere contenuto nei confini del linguaggio. La teologia rapida, invece, si muove nel segno del sottrarre, del tacere, dell’abbandonare ogni appiglio concettuale. Non dice «Dio è luce», sussurra forse «Dio non è tenebra»: e già questo dire è eccessivo. Non afferma perché balbetta. Non descrive, ma si lascia trafiggere dall’indicibile. Come nell’esperienza di Giobbe, che invece delle spiegazioni riceve addosso un uragano. Come in quella di Abramo, che parte senza sapere dove andrà, portando con sé solo una promessa, non una mappa.

In questi termini, ancora una volta, la teologia rapida si mostra profondamente filosofica, nel senso più radicale del termine: ovvero esperienza del pensare portato al suo punto di crisi. È una filosofia del pensiero spezzato. Una filosofia che, come accade nei grandi mistici e nei pensatori tragici, pensa contro il pensiero fino al punto in cui l’idea stessa di concetto viene messa in questione. Perché la verità, se è tale, non si lascia concettualizzare. È uno strappo, non una formula. È un urto, non una deduzione. È un evento che travolge il soggetto e lo riplasma, non un oggetto da analizzare.

La teologia rapida è pensiero ferito: è il pensiero che ha attraversato il proprio fallimento e, anziché rinunciare, ha deciso di abitare quella ferita come luogo generativo. In questo senso essa è kenotica, si svuota per far spazio a ciò che eccede. È una forma di pensiero che si fa soglia, apertura, disarmo. E proprio per questo è potente: perché non pretende di spiegare il mistero, si dispone ad accoglierlo. La sua verità non è una verità affermativa, assertiva, dogmatica, ma una verità sottrattiva, evocativa, paradossale. Non produce sistemi, custodisce tracce. Non argomenta, ma ascolta. Non possiede la verità; al contrario, la lascia brillare per un attimo nella crepa del linguaggio. Il reale stesso, in questa prospettiva, assurge a massima contraddizione e a enigmatica profondità. E la filosofia, quando si fa veramente teologica, ovvero quando spalanca il suo sguardo al divino, deve rinunciare al suo bisogno di ordine per aprirsi al tragico. Deve farsi vulnerabile. E solo così torna a essere vera non quando domina l’oggetto, ma quando si lascia destabilizzare da ciò che l’oggetto nasconde.

La teologia rapida è allora uno stile di pensiero che prende sul serio la crisi, la lacuna, lo smarrimento. È un pensiero che parla proprio nel momento in cui il linguaggio tace, che si affida allo splendore del mistero quando il sapere vacilla. E dunque lì, in quello smottamento dell’intelletto, si apre lo spazio del divino come invocazione. E quando il pensiero si arrende senza rinunciare, quando il concetto cede senza cadere, allora forse può ancora inverarsi lo splendore di una parola che non ci appartiene. Una parola che viene da un lontano altrove. Una parola che rapisce e nel rapire dona vita.

Per concludere questi appunti frammentari e cursori, la teologia rapida non è una fuga dalla filosofia, ma in un certo senso ne è il suo pieno compimento: è la filosofia che, toccato il limite, si trasfigura in apertura. Non smette di pensare, ma pensa in altro modo. Pensa col fiato corto, col cuore tremante, con l’anima che ascolta. E in quel pensiero rotto, in quel silenzio carico di attesa, forse – per un istante – qualcosa si rivela. Qualcosa che non possiamo nominare, ma che ci chiama per nome.

 

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