DIOCESI – Nella periferia di Ascoli Piceno, un prete dal sorriso accogliente e con 88 primavere alle spalle, don Basilio Marchei, accompagna i detenuti e gli operatori della Casa Circondariale di Marino del Tronto, annunciando misericordia e seminando speranza. Le pareti di quello che viene definito il “supercarcere di Ascoli Piceno“, diventano così testimoni di gesti semplici di ascolto e familiarità, grazie ai quali detenuti, agenti di Polizia Penitenziaria, personale sanitario, educatori e volontari provano a costruire relazioni autentiche e sincere, improntate al rispetto reciproco e al rispetto della dignità di ogni persona.

All’indomani del Giubileo dei Detenuti, che si è svolto nel fine settimana appena trascorso, da Venerdì 12 fino a ieri, Domenica 14 Dicembre 2025, fisso un appuntamento con don Basilio alle porte del carcere, nella periferia est di Ascoli Piceno, in una zona rurale ben isolata dalle abitazioni, ad 8 km dal centro città. Attraverso strade deserte, circondate solo da alberi. Penso di aver sbagliato strada, dal momento che i miei occhi non vedono traccia di persone o fabbricati intorno a me, finché non arrivo ad uno spiazzo che mi rivela l’imponente struttura in cemento costruita negli Anni Settanta del secolo scorso. Ad attendermi, davanti al cancello, di fianco alle poche auto parcheggiate, c’è un signore anziano che mi viene incontro, mi guarda e mi dice: “Pensavi di aver sbagliato strada, vero?! Invece è questo il mio posto di lavoro!“. Poi mi sorride e si presenta: “Sono don Basilio, abbiamo un appuntamento“. Resto sorpresa dal fatto che sappia chi sia e, quasi come se avesse ascoltato i miei pensieri, il prete aggiunge: “Ormai qui ci consociamo tutti. Non potevi che essere tu la giornalista che aspettavamo“.

Inizia così la nostra piacevole chiacchierata e mi accorgo subito di avere di fronte un uomo, oltre che un prete, che ormai ha ricevuto la grazia di una fede matura, che gli ha donato non solo la saggezza di trasformare serenamente le prove della vita in porte di speranza, ma anche la capacità di non temere più nulla, perché al sicuro e al riparo da ogni turbamento, grazie a Dio.
“Mai avrei pensato di trascorrere la mia vecchiaia in carcere! Sono nato a Maltignano il 28 Gennaio del 1938 e sono stato ordinato presbitero il 29 Giugno del 1961, a soli 23 anni. Nel tempo sono stato assistente diocesano della GIAC (Gioventù Italiana di Azione Cattolica) maschile e docente di Religione in diversi istituti Ascoli Piceno. Ho fatto parte del Consiglio Pastorale diocesano e del Consiglio diocesano degli Affari Economici. Per 50 anni, inoltre, sono stato assistente diocesano dell’UNITALSI. Ho svolto il mio servizio pastorale in numerose comunità, sempre nelle periferie: a Pietralta, f.ne di Valle Castellana, e San Martino, f.ne di Acquasanta Terme; a Castel San Pietro, f.ne di Palmiano; a Quinzano, f.ne di Force; a Gesso, f.ne di Comunanza; a Ripaberarda, f.ne Castignano; infine a Pagliare del Tronto, f.ne di Spinetoli, nella comunità di San Paolo, di cui sono parroco emerito e consulente ecclesiastico della locale sezione dell’UCIIM (Unione Cattolica Italiana di Insegnanti, Dirigenti, Educatori e Formatori). Pensavo quindi di aver concluso così il mio lungo servizio a Dio e alla Chiesa. Mai avrei immaginato di ricevere un ulteriore incarico! Ma si sa che i nostri piani non sempre coincidono con quelli del Signore!”.

Come ha accolto questa ulteriore richiesta di servizio che il Signore, attraverso la Chiesa, gli stava facendo?

“Quando due anni fa il vescovo Gianpiero (n.d.r. Palmieri) mi ha chiesto di occuparmi dei carcerati, sono rimasto molto sorpreso: avevo già 86 anni e non riuscivo a capire perché lo chiedesse proprio a me! Oltre all’età che mi pareva potesse essere un ostacolo, mi chiedevo: ‘Ma cosa si può fare in carcere?’. Non ho trovato subito una risposta, quindi sono stato tentato di rispondere di no. Tuttavia, l’atteggiamento del vescovo, che non mi ha né obbligato né forzato, mi ha fatto sentire libero di accettare, pur con molte riserve, l’incarico che mi stava conferendo. Mi sono detto che, se non fossi riuscito, avrei potuto rinunciare in qualsiasi momento. Sono entrato quindi con l’idea di imparare una pastorale diversa, mai sperimentata e tutta da inventare, e anche con la possibilità di tirarmi indietro se non fossi stato in grado di ottenere qualche buon risultato”.

Ha poi trovato una risposta alla sua domanda? Cosa si può fare in un carcere?

“Sì, con il tempo l’ho trovata! La cosa più importante che si possa fare in un carcere è entrare in comunione – o in empatia, se vogliamo usare un termine più laico – con tutte le persone che sono al suo interno. Mi riferisco sia ai detenuti, sia gli operatori penitenziari. L’atteggiamento giusto è quello di instaurare una relazione alla pari. Il carcere, infatti, è una piccola comunità di figli di Dio, ciascuno dei quali ha una funzione particolare: c’è chi è dentro perché deve scontare una pena e c’è chi, invece, deve aiutare gli altri a scontare quella pena. Non è semplice, perché ci sono tante persone, tante storie, tanti caratteri diversi. L’importante, però, è avere un’attenzione costante nel ricercare – e a volte anche creare – le condizioni necessarie per entrare nelle fessure dell’anima che i detenuti e gli operatori lasciano aperte.
In questo abbiamo un grande Maestro, Gesù, che, pur essendo più capace di tutti, più potente di tutti e senza peccato, non si è messo a comandare gli eserciti o i popoli, bensì ha detto a tutti che Lui era nessuno, era un uomo come tanti altri. Gesù ha accolto e poi lasciato l’uomo vecchio per fare spazio all’uomo nuovo, quello Risorto. Anche noi volontari, che andiamo ad incontrare le persone che sono in carcere, siamo chiamati ad avere questo atteggiamento: non giudicare la colpa, l’errore, lo sbaglio, bensì entrare dentro l’umanità delle persone che incontriamo. Questo è l’unico modo per poter entrare in contatto con la comunità penitenziaria e, più in generale, con tutti gli esseri umani. Se entriamo dentro l’umanità delle persone e la attraversiamo, davvero riusciamo a fare del bene per l’umanità. Il segreto, dunque, è l’ascolto non giudicante. Non si può andare a fare la predica, bensì solo a parlare di fiducia e speranza”.

Quale speranza si può portare ad un detenuto che trascorrerà tutta la vita – o comunque gran parte di essa – in carcere?

“La prima speranza che portiamo in carcere è che tutti siamo adatti a questo mondo. Il Signore ci guarda tutti come figli suoi, così come siamo, con le nostre virtù, ma anche con i nostri limiti. Gesù non entra mai in conflitto con i peccatori, anzi va da loro ad ascoltarli e a condividere momenti di convivialità. Non va da Zaccheo a dirgli che ha sbagliato, ma va a pranzo a casa sua. Questo comportamento Gesù lo ripete più volte, tanto da attirarsi il giudizio di alcune persone che gli rimproveravano di essere un mangione e un beone e di intrattenersi con i peccatori e con le prostitute. Ma il Signore non si cura di questo: al contrario, dava a tutti una seconda possibilità. Noi, allora, in carcere, portiamo proprio questo annuncio, cioè che il Signore c’è sempre, non ci abbandona: Egli ci aspetta nel suo giardino, come fa con Adam, e dà a tutti una seconda possibilità.
Ti dico anche un’altra cosa, che forse stupirà molti lettori. Ci sono detenuti che sanno di dover trascorrere l’intera vita in carcere, eppure riescono ad avere speranza. Al contrario, ci sono detenuti che hanno una pena con un termine e invece non hanno speranza. Perché? Perché la speranza non va intesa come speranza di uscire (dal carcere), ma come speranza di ri-uscire (in qualche cosa). Riuscire a fare qualcosa di buono è una scommessa che si può fare anche dentro la cella di un istituto penitenziario. Ci sono detenuti che in carcere sono diventati dottori o altri che si sono messi a lavorare in carcere. A tal proposito mi viene in mente un giovane, che è in alta sicurezza, che, quando ho conosciuto, non sapeva leggere. Ora, dopo un anno, non solo sa leggere, ma legge anche molto bene. Questo fatto mi commuove e mi fa pensare che, se tutti avessero le stesse opportunità di vivere in una famiglia accogliente ed in un contesto sociale non degradato, forse avremmo meno giovani nelle carceri”.

Quali ostacoli ha incontrato e come è riuscito ad instaurare un legame di fiducia con i detenuti?

“Per me non è stato facile impostare una pastorale nuova, diversa da quella a cui ero abituato. Ho impiegato circa 3 mesi prima di comprendere bene i meccanismi del carcere, che sono completamente diversi da quelli sperimentati fuori dal carcere. In parrocchia ci si confronta con il Consiglio Pastorale e si è subito operativi. In un istituto penitenziario, invece, trascorre molto tempo da quando si propone un’idea a quando effettivamente la si realizza. L’idea va prima condivisa, maturata, pensata in ogni dettaglio; poi va passata agli organi preposti per verificare che si possa concretamente mettere in campo, secondo i regolamenti vigenti all’interno della casa circondariale; infine viene autorizzata e poi messa in atto.

Con il tempo poi tutto diventa più facile, perché, un po’ alla volta, si iniziano a conoscere tutte le persone che lavorano dentro al carcere. In questo processo di conoscenza reciproca è molto importante presentarsi bene, rimuovendo tutto ciò che possa rappresentare un ostacolo. Io, ad esempio, non indosso né l’abito talare né il colletto da prete, perché certi simboli a volte facilitano, a volte no. Meglio presentarsi disarmati di ogni segno che possa creare distanza o pregiudizio, tanto il Signore ce lo abbiamo nel cuore e possiamo mostrarLo con le nostre parole e con i nostri gesti.

Devo dire che, a differenza di quanto si possa pensare, paradossalmente è più facile relazionarsi con i detenuti ad alta sicurezza, quelli dell’ex 141 bis per intenderci, perché negli anni hanno maturato l’idea di dover restare nella loro condizione per un periodo di tempo molto lungo o addirittura per tutta la vita.

Molti detenuti, invece, sono in attesa di giudizio. Tra questi ultimamente ci sono molti giovanissimi, che hanno meno di 25 anni e che sono in carcere per reati legati alla droga, magari per spaccio o per comportamenti illeciti compiuti a seguito dell’uso di sostanze stupefacenti, tra cui anche omicidi. Con loro è molto più difficile creare un rapporto. Spesso, infatti, vengono spazzati via da tutto e passano da una vita in cui possono fare ciò che vogliono ad una vita in cui invece non sono più padroni di nulla. Si tratta di giovani abituati a trascorrere le loro giornate, disponendo di ogni ora e facendo qualsiasi cosa volessero, che ora invece si ritrovano all’improvviso a dover stare in uno spazio molto ristretto e a dover adempiere agli obblighi imposti dalla loro condizione detentiva. Alcuni di loro hanno fatto anche un uso di stupefacenti costante e per un periodo prolungato di tempo. Quando giungono in carcere, arrivano senza un costrutto mentale, senza valori e con la mente danneggiata anche dalla droga. Qualcuno crede di poter uscire a stretto giro, nell’arco di qualche giorno, e invece in molti si ritrovano a dover attendere i tempi lunghi della giustizia e, quando il verdetto arriva, devono fare i conti con una sentenza a loro contraria e quindi una pena molto lunga da scontare. A quel punto, nel loro cuore si fanno strada due tipi di sentimenti: una profonda tristezza ed un senso di inadeguatezza, che possono sfociare in stati depressivi o atti di autolesionismo, che possono procurare anche conseguenze estreme; oppure una grande rabbia ed un forte senso di frustrazione, che sfociano in atteggiamenti violenti verso gli altri detenuti o verso gli agenti di Polizia Penitenziaria. Per queste ragioni, capita spesso che questi giovani vengano spostati da un carcere ad un altro e ogni volta bisogna ricominciare daccapo ad instaurare un legame con loro”.

Ha accennato al fatto che, oltre ai detenuti, lei accompagni anche gli altri operatori carcerari. In cosa consiste la sua azione pastorale verso queste persone?

Tutte le persone che operano all’interno di un carcere sono da conoscere, ascoltare ed accompagnare. L’ambiente in cui si lavora, infatti, non è sempre sereno. Gli agenti di Polizia Penitenziaria, in particolare, sono chiamati ad avere molta pazienza: a volte prendono sputi in faccia, altre volte vengono beffeggiati, altre volte ancora ricevono pugni e calci, tanto che spesso finiscono all’ospedale. Psicologicamente ed emotivamente sono molto segnati, per il continuo controllo che devono avere su stessi: in tutti i casi che ho menzionato, gli agenti sono costretti a subire e sono chiamati quindi ad avere un grande autocontrollo per non reagire, in modo da non dare scandalo e da non rovinare il rapporto di fiducia costruito con gli altri detenuti. Poi ci sono anche gli episodi in cui qualche detenuto si fa del male da solo: magari si taglia con oggetti occasionali come le lamette per la barba o magari dà pugni contro la parete per sfogare la rabbia e la frustrazione. Nei casi in cui si teme che un detenuto possa togliersi la vita, ad un agente può essere chiesto anche di fare la guardia fissa per ore, senza spostarsi mai. Anche questo non è un servizio semplice da svolgere. Ecco perché anche gli agenti e tutto il resto del personale carcerario vanno ascoltati ed incoraggiati continuamente. La serenità che esiste all’interno della Casa Circondariale di Marino del Tronto è merito del loro spirito di sacrificio, della loro capacità di autocontrollo e di resilienza”.

C’è una ricerca di spiritualità da parte dei detenuti? Se sì, come si manifesta?

Ogni uomo e ogni donna custodisce in sé un desiderio di spiritualità: è un bisogno, una tensione naturale. Ne è testimonianza il fatto che, durante l’ascolto, spesso registriamo il desiderio di sapere di più di Dio, anche da parte di persone di religione musulmana. Ed è per questo motivo che io porto Gesù a tutti, anche attraverso il Sacramento dell’Eucaristia. In qualche caso particolare io dico: ‘Gesù, Tu mi hai detto che vuoi andare in tutti i corpi. Io allora ti do anche a lui. Ora pensaci tu!’. Del resto sono fratelli nostri anche loro e ci sono dei momenti in cui alcuni di loro mostrano un pentimento sincero. In quella manciata di minuti – perché si tratta di un tempo limitato – raccontano quello che hanno fatto e piangono, come se vedessero con altri occhi quello che hanno compiuto, come se lo guardassero per la prima volta. Proprio come capitò a Pietro, che, dopo aver tradito Gesù, ‘pianse amaramente’.
Per rispondere a questo bisogno di spiritualità, ogni Sabato e ogni Domenica celebriamo la Messa, una per ogni gruppo di detenuti. In tutto abbiamo diviso i detenuti in quattro gruppi: il primo è quello costituito da detenuti ad alta sicurezza; poi ci sono i detenuti in attesa di giudizio, che abbiamo dovuto dividere in due gruppi, perché sono molto numerosi; infine c’è un gruppo che noi definiamo ‘speciale’, perché è formato da detenuti che hanno bisogni speciali. Quest’ultimo gruppo può variare di consistenza: può essere formato a volte anche da una sola persona. A tutti comunque offriamo la possibilità di celebrare insieme a me e a qualche volontario la Santa Messa. Ogni tanto viene anche il nostro vescovo Gianpiero a presiedere una Messa: ogni volta scegliamo un gruppo diverso, cosicché tutti i gruppi possano conoscerlo ed ascoltarlo. Ovviamente il tutto avviene nella cappella presente all’interno del carcere ed in presenza di agenti di Polizia Penitenziaria.
All’inizio non tutti i detenuti che partecipavano alla Celebrazione Eucaristica collaboravano; con il tempo, però, abbiamo iniziato a chiedere loro di animare la Messa. Ora si è creato un bel clima di fiducia e di comunione. Indegnamente parlando, credo ormai di essere scomparso: quando ascoltano la mia voce, sanno che non è la mia, ma è la voce di Cristo“.

Come avete vissuto il Giubileo dei Detenuti?

Dopo l’apertura della Porta di Speranza con il cardinale Matteo Maria Zuppi, avvenuta lo scorso Giugno, abbiamo intenzione di chiudere l’Anno Giubilare con la Messa di Natale, che, come di consueto, verrà celebrata dal nostro vescovo Gianpiero.

In questo fine settimana, in occasione del Giubileo dei Detenuti, prima delle quattro Messe che celebriamo tra il Sabato e la Domenica, abbiamo ricevuto nella cappella ogni gruppo ed abbiamo tenuto una breve catechesi sul Giubileo.

In questi mesi abbiamo puntato a rimettere al centro la Parola del Signore ed il Sacramento dell’Eucaristia: già abbiamo riscontrato dei buoni risultato. A volte c’è qualche fuori programma. Ad esempio, spesso capita che durante l’omelia i detenuti facciano delle domande. In quei casi, non rimprovero che mi ha interrotto; al contrario, rispondo ai quesiti che mi vengono posti e assecondo la loro sete di Parola. In quelle circostanze si crea un clima  familiare, che permette di stare bene insieme e crescere insieme.

Il Sacramento della Riconciliazione, invece, è meno praticato rispetto a quello della Comunione, ma questo avviene anche al di fuori della mura del carcere. Tra i tanti biglietti che i detenuti mi mandano, alcuni chiedono anche un colloquio con il sacerdote. Durante quei momenti io propongo sempre la Confessione, ma non sempre l’invito viene raccolto. Domenica scorsa una persona si è confessata e sono stato felice di vedere una luce diversa nei suoi occhi, quando è uscito dalla cappella.

Mi auguro che la mia presenza e quella di molti volontari, in questo Anno Giubilare, abbia portato davvero molta speranza in tutti i detenuti e in tutti gli operatori penitenziari. Questo lo possiamo desiderare, ma non possiamo esserne certi. Quello di cui invece sono sicuro è che l’Anno Giubilare abbia sicuramente portato molta speranza nei cuori di tutti noi volontari. Non è facile avvicinarsi a questo contesto, visitare le carceri, offrire speranza e dignità ai detenuti, ascoltarli con pazienza, mostrare misericordia ed accompagnarli, superando pregiudizi e stereotipi. A volte ci possono essere momenti di scoraggiamento anche per noi volontari. Quest’anno, però, abbiamo davvero messo in campo tante risorse umane, tra cui anche la fantasia. Ci sono infatti tanti modi di poter lavorare dentro un carcere e noi siamo chiamati a trovare, con pazienza e creatività, nuove strade. Abbiamo, ad esempio, scelto alcuni articoli pubblicati su Famiglia Cristiana e li abbiamo commentati, alla luce della fede cristiana, insieme ad alcuni detenuti. In questo modo siamo riusciti ad instaurare un legame vero ed un dialogo autentico con alcuni giovani anche di religione musulmana: a loro abbiamo spiegato il valore della Messa per noi cristiani e abbiamo illustrato il significato delle varie parti di una Celebrazione Eucaristica. La fantasia è un ottimo alleato per realizzare il nostro desiderio, che resta sempre quello di trasformare la prigione in un luogo in cui riscoprire l’umanità e soprattutto la possibilità di una seconda possibilità, essenziale per la vita spirituale di tutti, a maggior ragione per un detenuto”.

È così che prende vita, nella quotidianità, quel versetto del Vangelo di Matteo, pronunciato da Gesù nel suo discorso escatologico: “Ero carcerato e siete venuti a trovarmi” (Mt 25, 36). Attraverso una presenza costante e un ascolto non giudicante. Attraverso attività fantasiose e gesti concreti di vicinanza. Attraverso la costruzione di relazioni autentiche e sincere. Attraverso una vita donata agli altri. Come quella di molti volontari. Come quella di don Basilio, che instancabilmente continua a gettare, lungo il cammino della sua vita, copiosi semi di speranza.

 

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