Di Pietro Pompei

DIOCESI – Al termine delle mie tredici sedute di radioterapia, mentre attendo con trepidazione un responso che potrebbe cambiare il corso dei miei giorni, ritorno al mio computer. È come un rifugio, un luogo dove provare ad addolcire le ferite del corpo e dell’anima.

E così, quasi istintivamente, il mio pensiero corre al Santo Natale, al tempo dell’Avvento che stiamo vivendo. Nei ricordi lontani della mia giovinezza riaffiora l’immagine di quelle raccolte di fondi per l’Università Cattolica di Padre Gemelli: gesti semplici, ma carichi di significato. Eppure oggi, nella mia attuale fragilità, questi ricordi hanno un sapore diverso; mi rendono più malinconico, mentre la malattia mi costringe tra le mura di casa.

La memoria, però, continua a essere una compagna fedele. Frugando tra i miei libri, ritrovo un volume acquistato una ventina d’anni fa, quando ancora Papa Benedetto XVI era il teologo Ratzinger. Si tratta di un libro che propone 365 meditazioni quotidiane: un titolo che allora mi sorprese e che mi sembrò quasi eccessivo. «Ohibò!», mi dissi. «Devo proprio leggerlo». Oggi capisco che quel libro mi stava aspettando, per essere condiviso con tutti coloro che vivono situazioni simili alla mia. E infatti era ancora lì, al suo posto, nella mia libreria.

Il volume — 365 giorni con il Papa (Edizioni San Paolo, 2006) — introduce così il tempo dell’Avvento:

“Sofferenza e malattia possono essere – allo stesso modo che una grande gioia – qualcosa come un Avvento del tutto personale: una visita che Dio fa alla mia vita, volendosi rivolgere proprio a me”.

Una prospettiva sorprendente, che apre uno spiraglio inatteso. Ratzinger spiega poi il senso più profondo della parola Avvento, che contiene anche la radice di visitazione: una visita che, nel suo significato originario, portava con sé un senso di gioia. Ma il nostro modo di pensare, dice il Papa, ha smarrito questo legame: oggi la parola “visitazione” evoca spesso fatiche, prove, tribolazioni che interpretiamo come punizioni divine. Eppure è proprio il contrario: anche il dolore può nascondere un seme di bellezza, un frammento di luce.

Per me non è facile. Tuttavia, devo provare — almeno per una volta — a guardare i giorni della malattia sotto questa luce nuova: forse il Signore ha interrotto il mio cammino per riportarmi alla calma, al silenzio, alla profondità.

Ratzinger conclude:

“La malattia non è senza senso. Può essere il momento di Dio nella nostra vita: il tempo in cui ci apriamo a Lui e così impariamo a ritrovare nuovamente noi stessi”.

Quanta verità in queste parole! In queste settimane in cui il mondo si accende di luci e si affanna alla ricerca di doni, rischiamo di dimenticare il Mistero più grande: l’Incarnazione. È proprio questo il nostro “pezzo di Avvento”, quel frammento di Vangelo in cui Gesù ci invita a prendere la nostra croce e camminare dietro la sua. Una croce che, nella Risurrezione, frantumerà per sempre la morte e spalancherà la porta del Paradiso. È questa la gioia promessa… anche se richiede una fede grande.

Per questo desidero aggiungere un’altra pagina del medesimo libro, che illumina ancora il senso dell’Avvento e ci ricorda che il Signore è già con noi, già presente nella nostra realtà concreta, dove perfino la sofferenza e la malattia possono diventare misteriosamente preziose per la Vita eterna. Da qui nasce la nostra Speranza.

Papa Benedetto XVI scrive:

“Per i cristiani, Gesù Cristo è il Re che è venuto in questa miserabile provincia della terra e le fa dono della gioia della sua visita”.

Che cosa significa, allora, Avvento?

Ratzinger risponde:

“Avvento” significa “presenza”, “venuta”. È il termine con cui, nell’antichità, si indicava l’arrivo del re o dell’imperatore. I cristiani lo hanno fatto proprio per dire che Dio non ci ha mai abbandonati. Egli è presente, ci viene incontro, anche se non possiamo vederlo o toccarlo come una cosa qualsiasi. L’Avvento ci ricorda che questa presenza è già iniziata — anche se nascosta e silenziosa — e che vuole crescere, maturare, compiersi. E noi, con la nostra fede, speranza e carità, siamo chiamati a far brillare questa luce nella notte del mondo”.

Le piccole lampade che accendiamo nelle sere d’inverno diventano così un segno: un richiamo e una consolazione. Ci ricordano che la “luce del mondo” è già sorta nella notte di Betlemme e che quella luce ha trasformato la lunga notte del peccato nella notte santa del perdono, in cui Dio ha scelto di farsi vicino per sempre.

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2 commenti

  • Rita Borrello
    03/12/2025 alle 13:08

    MERAVIGLIOSO

  • Chiara angelucci monteprandone
    03/12/2025 alle 14:51

    Pietro sono Chiara Angelucci si ricorda di me? abitavo in via Umbria 30 sopra a Mimma! che piacere! quanti bei ricordi! ho fatto un cammino per crescere nella Fede come mio papà e mia mamma mi hanno insegnato! sono abbonata all' Ancora che leggo e condivido volentieri con tanti! grazie a Dio e a lei con sempre tanta stima e affetto

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