DIOCESI – Lectio delle Sorelle Clarisse del Monastero Santa Speranza di San Benedetto del Tronto.

Nell’ultima domenica dell’anno liturgico celebriamo la festa di Cristo Re dell’universo. E il brano evangelico che la liturgia ci propone è quello di Gesù crocifisso in mezzo a due malfattori.

Potremmo pensare che, forse, questo, non è di certo il brano più adatto per parlare di un Cristo Re.

Gesù sta morendo e tutti lo deridono, tutti lo prendono in giro.

Sono scandalizzati gli uomini religiosi: “Ma che Dio è quello che lascia morire il suo eletto?”.

Si scandalizzano i soldati, gli uomini forti: “Se sei il re usa la forza per scendere dalla croce e salvarti!”.

Anche uno dei malfattori appesi alla croce lo insulta: «Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e noi!».

Per tre volte Gesù viene deriso come Messia e per tre volte i suoi avversari gli rivolgono l’invito a salvare sé stesso, quasi che proprio la capacità di sottrarsi alla croce, di sottrarsi alla morte, di salvare la propria vita sia per tutta questa gente la prova del nove che Gesù è il Messia, quello vero.

Noi siamo abituati a chiamare “grandi” quanti nella politica, nell’economia, nella vita sociale sanno imporsi con visibilità, una visibilità che spesso sa di voglia di affermarsi, di stupire. E tutti concordiamo nel ritenere un segno di debolezza il dover dipendere dagli altri. Il potente, così come ce lo immaginiamo, è colui che salva sé stesso, che può permettersi di pensare solo a sé, che ha i mezzi per darsi soddisfazione, senza aver bisogno degli altri.

Dio è ciò che non possiamo permetterci di essere, il più potente dei potenti, che può tutto, che non ha bisogno di niente e di nessuno…beato lui!!

No, il nostro Dio non salva sé stesso. La regalità di Gesù è una regalità che contraddice la nostra visione di Dio. Perché questo Dio che il Vangelo ci presenta è più sconfitto di tutti gli sconfitti, fragile più di ogni fragilità. Un re senza trono e senza scettro, appeso nudo ad una croce, un re che necessita, proprio sulla sommità di questa croce, di un cartello per essere identificato.

Ecco: questo è il nostro Dio, un Dio sconfitto. Non un Dio trionfante, non un Dio onnipotente ma un Dio sfigurato, piagato, arreso, sconfitto.

Una sconfitta che, per lui, però, è un evidente gesto di amore, un impressionante dono di sé. Un Dio sconfitto per amore, un Dio che, inaspettatamente, manifesta la sua grandezza nell’amore e nel perdono.

Ed è così che, il secondo dei due malfattori appesi alla croce con Gesù, si rivolge a lui. Quest’uomo non vede un Dio lontano, un Dio potente, vede un Dio affianco alle sue pene: «Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno».

E Gesù non si ricorda, fa molto di più, lo porta con sé, se lo carica sulle spalle come fa il pastore con la pecora perduta e ritrovata per riportarla a casa, nel regno: «In verità io ti dico: oggi con me sarai nel paradiso».

E mentre la logica della nostra storia sembra avanzare per esclusioni, per separazioni, per respingimenti alle frontiere, il Regno di Dio avanza per inclusioni, per abbracci, per accoglienza. Non ha nessun merito da vantare questo malfattore, ma Dio non guarda ai meriti. Non ha virtù da presentare questo ladro, ma Dio non guarda alle virtù. Sarai con me: la salvezza è un regalo, non un merito.

Tutto questo ci spiega anche San Paolo, nella seconda lettura, tratta dalla sua lettera alla comunità dei Colossesi: «Fratelli, ringraziate con gioia il Padre che vi ha reso capaci di partecipare alla sorte dei santi nella luce. È lui che ci ha liberati dal potere delle tenebre e ci ha trasferiti nel regno del Figlio del suo amore, per mezzo del quale abbiamo la redenzione, il perdono dei peccati».

«Oggi con me sarai nel paradiso»: questa è la certezza, sta a noi accoglierla, accettando di perdere la nostra vita per Gesù Cristo, il Messia che regna dalla croce, cioè di amare lui al di sopra di ogni nostro amore e di spendere la nostra vita per i fratelli nella giustizia e nell’amore.

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