
Di Riccardo Benotti
A Toyoake, cittadina giapponese di 68mila abitanti, il sindaco ha deciso: non più di due ore al giorno di smartphone per tutti. Nessuna multa, nessuna polizia digitale a controllare: solo un’ordinanza simbolica, affidata al senso civico dei cittadini. È bastato, però, a scatenare proteste, ironie, telefonate al Comune per chiedere chiarimenti.
Non tanto perché due ore siano poche, ma perché la semplice idea di un limite ci appare intollerabile.
Viviamo immersi in dispositivi che ci connettono a tutto e a tutti, eppure ci staccano dal tempo, dalla concentrazione, dalle relazioni. Scrollare è diventato gesto automatico, non più scelta consapevole. In questo contesto, l’ordinanza di Toyoake appare come un atto quasi rivoluzionario: non reprime, ma interroga. Non punisce, ma provoca. È la città che guarda sé stessa e si chiede: siamo ancora liberi, o prigionieri di uno schermo che detta ritmi e contenuti delle nostre giornate?
L’aspetto più radicale non è il limite in sé, ma l’uguaglianza: grandi e piccoli sottoposti alla stessa regola. Da sempre gli adulti si lamentano dell’uso compulsivo dei ragazzi, soprattutto a scuola. Ma come si può chiedere loro di resistere alla seduzione digitale, se i genitori restano incollati al telefono durante una cena di famiglia o persino in chiesa? La pedagogia non regge senza coerenza. Hannah Arendt lo ha scritto con parole nette: “L’educazione è il momento che decide se noi amiamo abbastanza il mondo da assumercene la responsabilità e salvarlo così dalla rovina”. È questa responsabilità che Toyoake, nel suo piccolo, prova a evocare:
l’esempio prima delle prediche.
Non a caso, lo stesso Papa Leone XIV ha scelto per la prossima Giornata mondiale delle comunicazioni sociali il tema “Custodire voci e volti umani”: un monito a non ridurre la vita a flusso di dati e immagini, ma a riconoscere sempre la centralità della persona.
Il mondo digitale nel 2025
Secondo il Digital 2025 Global Overview Report, gli utenti internet sono 5,56 miliardi (67,9% della popolazione) e gli utenti social media 5,24 miliardi (63,9%). Ogni adulto trascorre in media 6 ore e 38 minuti al giorno online, di cui 2 ore e 21 minuti sui social. Numeri che confermano come la vita connessa sia diventata parte integrante della quotidianità globale.
Si dirà che è un’utopia, che nessuno riuscirà davvero a rispettare il tetto delle due ore. Forse è vero. Ma il senso dell’ordinanza non sta nella misurazione dei minuti, bensì nel valore simbolico: dichiarare che esiste un problema, che la dipendenza da smartphone corrode relazioni e salute, e che occorre affrontarla con coraggio. In un Paese come il Giappone, dove le autorità locali hanno già imposto limiti all’uso dei dispositivi nelle scuole, Toyoake ha osato andare oltre, mettendo in discussione un costume generale, non soltanto giovanile.
E se ci pensiamo, il paradosso è proprio questo: la provocazione giapponese ci appare assurda, ma il vero assurdo è la nostra rassegnazione.
Ci indigniamo se un sindaco propone di spegnere lo schermo, ma non ci scandalizziamo se, secondo ricerche recenti, passiamo in media più di quattro ore al giorno con gli occhi sul telefono. La schiavitù tecnologica non suscita scandalo, la proposta di liberarsene sì.
La domanda che viene da Toyoake è semplice e destabilizzante: quanto tempo siamo disposti a restituire alla vita reale? Non è questione di proibizionismo digitale, ma di libertà interiore. Il tempo liberato dal telefono può diventare tempo di ascolto, di silenzio, di relazione. Può restituire profondità all’esperienza umana, quella che nessun algoritmo saprà mai replicare.
Forse non adotteremo mai ordinanze simili in Italia. Ma resta la sfida educativa, culturale, spirituale: riscoprire il valore del limite come condizione per vivere pienamente. Perché la vita non si lascia rinchiudere in uno schermo.




0 commenti