SAN BENEDETTO DEL TRONTO – Nato in una casa in piazza Garibaldi, a San Benedetto del Tronto, da mamma casalinga e padre pescatore; cresciuto durante la Seconda Guerra Mondiale in un contesto di povertà e privazioni insieme a due fratelli e quattro sorelle; laureato presso l’Università degli Studi di Urbino in “Filosofia, Pedagogia, Psicologia e Storia“; un passato di fervente militanza nella Democrazia Cristiana; per 18 anni direttore de Lu Campanò”, rivista bimestrale del Circolo dei Sambenedettesi; per 10 anni direttore responsabile del Giornale diocesano “L’Ancora”, di cui ancora oggi è direttore editoriale; sposato con Eola Perazzoli e padre di quattro figli: Sonia, Roberto, Stefano e Valerio; oggi nonno di 8 nipoti tra i 14 e 35 anni e bisnonno di una pronipote di 2 anni.

Stiamo parlando del prof. Pietro Pompei, che, con i suoi 90 anni, ha attraversato da protagonista il secolo scorso e continua tutt’oggi ad esserlo.

Per celebrare questo importante traguardo, domani, mercoledì 6 agosto, è prevista una Santa Messa di ringraziamento alle ore 18.30 presso la Cattedrale Santa Maria della Marina. La celebrazione sarà presieduta dal Vescovo Gianpiero Palmieri.

Sarà un’occasione preziosa, a cui siamo tutti invitati, per esprimere affetto e gratitudine, nonché per condividere un momento di fraternità e festa, che proseguirà dopo la Santa Messa.

Una comunità intera si prepara così a rendere omaggio a un uomo che, con passione e dedizione, ha contribuito per decenni alla crescita culturale e spirituale del territorio.

“A 90 anni, si va sulla scia ‘felliniana’ Tà…Ricurde!!!”: inizia con questa battuta e una risata gioviale, la piacevole chiacchierata con il prof. Pietro Pompei, un uomo che di ricordi ne ha veramente tanti. E tutti molto significativi. Un uomo che la storia l’ha raccontata, l’ha vissuta e l’ha fatta.

Come è stata la sua infanzia?

Sono il quinto di sette figli. Il primo era Giovanni, professore di matematica alle Scuole Medie e Superiori, che fu anche presidente dell’Azione Cattolica diocesana ed impegnato per anni in politica con l’ECA (Ente Comunale Assistenza). La seconda della famiglia era Giuseppina, una suora laica della Pro Civitate Cristiana Assisi, che per anni fu direttrice della casa editrice dell’associazione ed viaggiò da missionaria in Cina, Messico, Cuba, Stati Uniti, Argentina. Poi ci furono Maria e Ilde, che per tutta la vita lavorarono come sarte presso la zia Maria, portando avanti l’attività con serietà e dedizione. Dopo di me, invece, nacque Mario, che, essendo ragioniere, andò a lavorare presso la Banca dell’Adriatico, per un periodo anche come direttore di Filiale. Infine arrivò Milvia, che, dopo il diploma, aprì la Libreria Urania, che molti ancora ricorderanno.
Essendo tante bocche da sfamare, non abbiamo sempre navigato nell’oro, soprattutto durante il periodo della guerra. In quegli anni i motopescherecci furono requisiti dal governo fascista per andare a sminare il mare, quindi anche mio padre fu mandato al Nord e mia madre si dovette accollare i figli. Una situazione molto simile a quella già vissuta nella sua adolescenza e giovinezza. Mia nonna, infatti, era morta a 30 anni, costringendo mia madre a sostituirsi nel ruolo che era di mia nonna sia in ambito familiare che lavorativo. Prima di tutto aveva dovuto accudire 2 fratelli e 3 sorelle di cui 2 erano poi diventate Suore Giuseppine, poi aveva dovuto prendere il posto di mia nonna anche nel lavoro. Quando mio nonno e mio zio Tommaso, infatti, nel pomeriggio tornavano dal mare con le “lancette” gemelle, cioè quelle guidate con la vela, cariche di pesce, mia nonna lo andava a vendere. Quel lavoro, dopo la sua morte, era toccato a mia madre, la quale, all’orario di rientro delle “lancette”, correva sulla spiaggia portando con sé la bilancia di ottone sotto al braccio, uno strumento fondamentale per pesare il pesce e procedere alla vendita. Quando mio padre fu costretto dal governo fascista ad andare con il suo peschereccio a sminare i fondali del nord Adriatico, mia madre si ritrovò nella stessa situazione che aveva vissuto da ragazza, cioè di donna sola che doveva prendersi cura della famiglia, sia accudendo i suoi familiari, sia procurando loro il cibo necessario per vivere.

Cosa ricorda della Seconda Guerra Mondiale?

Ho ricordi molto vividi. Terribili. Ve ne racconto due.
Durante il periodo di governo fascista, ogni famiglia aveva una tessera con l’elenco di beni alimentari che ciascuno poteva acquistare ed era proibito comprare fuori da quella lista. Si trattava di una risoluzione per razionare il cibo. Mia madre, che all’epoca aveva 6 figli, poteva prendere 6 pagnottine. Mio fratello primogenito, però, mangiava tanto e spesso alla sera le 6 pagnottine erano già finite da un pezzo. Quello che succedeva a noi, accadeva anche in altre famiglie: per questo motivo c’erano alcune persone che vendevano la farina di contrabbando. Mia madre, come molti altri abitanti in piazza Garibaldi, una volta ne comprò mezzo quintale per poter fare i pasti serali. Ci fu chi fece la spia e rivelò ai gendarmi i nomi di coloro che avevano acquistato la farina. Nel giro di pochi minuti giunsero sul posto alcuni Carabinieri, con uno stuolo di fascisti urlanti e facinorosi. I Carabinieri si misero a cercare in casa e trovarono la farina, nascosta dietro ad un armadio. Io frequentavo la Seconda Elementare e tornai a casa proprio in quel momento. Come aprii la porta, trovai mia madre con il maresciallo Nardone, che la stava arrestando. Il maresciallo alzò la sciabola – perché all’epoca quella era l’arma di servizio dei Carabinieri – ed io feci un urlo che si sentì ovunque. Una donna, la signora Giannina, la zia di don Filippo Collini, mi prese e mi portò a casa sua. Furono portate via 6 persone, 1 uomo e 5 donne, tra le quali anche mia madre. Rimase in prigione per tutta la notte, poi le venne comminata una contravvenzione e fu rimandata a casa.

L’altro ricordo è legato al periodo dello sfollamento, a quando il fronte di combattimento avanzava: c’era stato l’armistizio e molti scappavano dal Nord e venivano verso San Benedetto del Tronto. Una notte, i motopescherecci, tentarono la sortita dal porto di San Benedetto, per andare ancora più a Sud, dove gli Alleati erano già arrivati, dalle parti di Trani, Brindisi. Era il 1944 ed io avevo iniziato a frequentare la 3° Elementare. La guerra, per fortuna, fino a quel momento, l’avevo vista da lontano. A sette anni, però, ebbi una specie di anemia e mia madre mi mandò a Ripatransone, perché lì c’era l’aria buona. Mi affidò alle sorelle di don Giuseppe Rossi, il prete che aveva sostituito don Francesco Sciocchetti qui alla Marina. Queste signore avevano una specie di casa famiglia a pagamento, dove altri ragazzi come me vivevano per lunghi periodi. Io vi rimasi un anno, un lungo anno, durante il quali conobbi una coppia di coniugi senza figli, che viveva in via Giuseppe Garibaldi: Davide Piergallini ed Emma Spaccasassi. Questi due, come molti a Ripatransone, vivevano dei prodotti coltivati da loro nelle terrazze, cioè negli appezzamenti di terra fuori le mura, e trasportavano i prodotti da un posto all’altro con l’asino. L’anno dopo, essendomi affezionato moltissimo all’asino, dissi a mia madre che volevo tornare da loro per stare con l’asino. In realtà, asino a parte, per loro era una gioia ospitarmi perché mi vedevano come il figlio che non avevano mai avuto e mi rendevo conto che per mia madre ci sarebbe stata una bocca in meno da sfamare. Mentre ero a Ripatransone a casa di Davide ed Emma, sapendo che i Tedeschi stavano arrivando, i Sambenedettesi iniziarono a sfollare. I miei familiari si recarono a Carassai, insieme alla famiglia di Filippo Collini, quello che poi sarebbe diventato sacerdote, e alla famiglia Spina. Dopo aver sistemato tutti a Carassai, mia madre decise di venirmi a prendere con una carrozza a cavallo: mi avrebbe raccontato poi che si era detta: “Se proprio dobbiamo morire, almeno moriremo tutti insieme”. Quella sera accadde un fatto eccezionale. Generalmente Davide, Emma ed io andavamo a dormire presto, ma quella sera, visto che mia madre era venuta a prendermi e loro non dovevano accudirmi, si recarono a casa di un’altra famiglia e rimasero fuori fino a tardi. Questo fu provvidenziale. Di lì a qualche minuto, infatti, alcuni aerei, vedendo un’auto arrivare, iniziarono a lanciare le bombe. Arrivati a Carassai, vedemmo Ripatransone bombardata e ci spaventammo tantissimo. Solo molto tempo dopo riuscimmo a sapere che Davide ed Emma erano ancora vivi, mentre la loro casa era diventata inabitabile.

Quando e come ha deciso di diventare professore?

Non è stata una scelta immediata. Dopo la 5° Elementare conseguita presso l’Istituto delle Suore Battistine, dovetti sostenere l’esame di ammissione per la Scuola Media presso le Sacconi. Superato l’esame, decisi subito di andare a frequentare le Scuole Medie presso il Seminario di Montalto delle Marche, nello stesso luogo di Luciano Paci, che poi sarebbe diventato don Luciano, il quale, più grande di qualche anno, mi ricorda sempre che il rettore (poi diventato vescovo, don Amadio) gli diceva di portarmi sulle spalle durante le uscite in montagna, perché ero troppo esile e non ce la facevo a camminare. Dopo due anni di Ginnasio a Ripatransone, andai a Fano per fare gli ultimi tre anni di Liceo Classico, ma, a metà del 2° anno, fui chiamato dal padre spirituale, il quale mi disse che, secondo lui, quella non era la mia strada. Aveva ragione! Così mi trovai all’improvviso a dover decidere cosa fare. Determinante fu la figura del docente di Italiano, don Moncallero, che con le sue lezioni incantava. Non a caso di lì a poco sarebbe diventato docente universitario a Roma. Pensai che mi sarebbe piaciuto diventare docente come lui, che riusciva a suscitare in noi studenti interesse e passioni.

Uscii dal seminario a 17 anni. Non avendo ancora un titolo, perché all’epoca non erano riconosciuti quelli del seminario, scelsi una scuola che mi potesse far diplomare e poi lavorare in fretta: le Magistrali. All’epoca il corso di studi durava quattro anni, quindi feci l’esame del 3° anno e, dopo averlo superato, frequentai subito il 4° ed ultimo anno. Sostenni l’esame di stato ed ottenni subito il titolo di Maestro per poter insegnare. Poi mi iscrissi all’Università di Urbino, ma la mia famiglia aveva bisogno di denaro, quindi, dopo il primo anno, abbandonai per iniziare a lavorare. Ripresi gli studi solo un anno dopo e mi laureai dopo cinque anni in “Filosofia, Pedagogia, Psicologia e Storia“.

Come è nata la sua passione per la politica?

Mi sono sempre interessato alla politica. Iscritto all’Azione Cattolica della Guido Negri, fu naturale iscrivermi alla DC. Da giovane andavo a portare i manifesti, vivevo nella DC. Era segretario Ariano Micucci, il quale un giorno mi invitò al Convegno Provinciale dei Giovani. Feci un intervento che molti apprezzarono e mi nominarono subito delegato provinciale della DC. Ma io non ero ancora tesserato! Fummo allora costretti a fare subito la tessera.
Durante le varie tornate elettorali, organizzavamo il contro- seggio, ovvero un luogo in cui avevamo la lista dei votanti e facevamo una staffetta per controllare chi era andato al voto e chi no, così da sollecitare chi non era ancora andato.

L’anno in cui mi sono sposato, poi, ci fu la frattura con il partito. Finalmente, dopo due legislazioni, riuscimmo ad ottenere la guida del Comune, ma iniziammo a discutere tra noi. Io ed altri volevamo che, prima che in Comune, alcune questioni venissero condivise con il partito, ma questo non avveniva. Ci cacciarono fuori, addirittura! E noi facemmo ricorso. Andammo anche ad incontrare il segretario nazionale e gli chiesi spiegazioni. Ero in compagnia dello storico Gabriele Cavezzi, amico carissimo, e anche lui ascoltò la risposta del segretario: “Noi sappiamo tutto, ma dobbiamo darvi torto”. Ecco come è crollata la DC! Non solo da noi, ma anche nel resto d’Italia.

Pur non essendo più iscritto alla DC, mi impegnai molto in Azione Cattolica e in particolare in uno di quei Comitati Civici fondati da Gedda, che accoglievano molti giovani appassionati di politica. Credo sinceramente che molti giovani come me, all’epoca, abbiano condizionato la storia, trasferendo in politica i valori cristiani del Vangelo.
Sono sempre stato un idealista. Fui anche nominato assessore a Ripatransone, votato in una lista della DC locale, ma come indipendente.

Chi è Quintiliano e cosa ha rappresentato nella sua vita?

Quintiliano era il mio pseudonimo, quando scrivevo sui giornali. Spesso punzecchiavo le Amministrazioni locali e i Governi provinciali, quindi utilizzavo questo nome per evitare ripercussioni di natura personale e professionale e per poter continuare a fare bene e liberamente il mio lavoro. La scelta ricadde su Quintiliano, perché ero il quinto figlio della mia famiglia. Quintiliano è stato molto importante per me, perché mi ha permesso di divulgare la mia opinione, di far sentire la mia voce, di far conoscere il mio punto di vista ad un pubblico vasto.

Come è cambiata la città di San Benedetto del Tronto in questi anni? E la Chiesa? Cosa prevede per il futuro?

La storia di San Benedetto ha segnato anche i passaggi della Chiesa. Quando venne il cardinal Baggio, il parroco don Francesco Traini gli presentò una popolazione enorme rispetto a quella che era presente a Montalto delle Marche e a Ripatransone. La storia di San Benedetto è cambiata, anzi direi iniziata, nel 1945, quando in tanti, provenienti dall’entroterra, si sono riversati sulla Riviera per cercare lavoro. Di fronte a questa situazione, i paesi dell’interno si sono impoveriti e continuano ancora a farlo, anche se in realtà hanno risorse paesaggistiche, artistiche e culturali molto valide, che bisognerebbe valorizzare di più. Certamente chi è venuto qui, è divenuto sambenedettese e si sente sambenedettese. Del resto come non amare la nostra bellissima spiaggia, il nostro mare, il nostro cielo?
Però, a ben pensarci, la compagine cittadina sambenedettese attuale ha molto in comune con quella dell’entroterra piceno, perché molti provengono da famiglie che in passato vivevano nei paesi dell’interno piceno. Onestamente, per fare una Diocesi, non occorre che ci sia tanta popolazione, ma che ci sia una storia, una storia comune. E le due Diocesi del Piceno hanno moltissimo in comune. Prevedo quindi che l’unione tra le due Diocesi si farà senza grossi problemi. Qualche fanatico rivendica ancora delle rivalità calcistiche, ma parliamo davvero di poca cosa rispetto all’unione che si vuole e che già c’è tra i cittadini, tra i fedeli.

Lei è stato uno spettatore privilegiato della storia della Diocesi di San Benedetto del Tronto – Ripatransone – Montalto, avendo conosciuto e anche collaborato con tutti i vescovi che si sono succeduti. Cosa ricorda di ciascuno?

Mons. Giuseppe Chiaretti, che è stato il primo vescovo della nostra Diocesi, aveva un’apertura mentale pazzesca. Ci attraeva moltissimo sul piano culturale! L’Ancora nacque proprio con lui: nel suo stemma c’era l’ancora, simbolo di Speranza, e la volle riportare anche sul Giornale diocesano. Chiaretti si prodigava molto per realizzare concretamente i progetti che aveva in mente. All’epoca, grazie a don Armando Alessandrini, riuscì ad intercettare un contributo grandioso dalla Banca di Monteprandone e Acquaviva: ottenne l’abbonamento a L’Ancora da parte di tutti i soci. Questo fece proprio da volano alla nascita del Giornale diocesano. Io entrai a far parte della redazione qualche anno dopo, mentre don Alessandrini era direttore e don Vitelli vicedirettore. Ricordo che, come primo contributo, scrissi un articolo molto ben elaborato contro Enzo Tortora, che aveva scritto contro la Chiesa, ma don Vitelli non me lo pubblicò! Un giorno, successivamente, scrissi un articolo dal titolo “L’uomo confezionato”, in cui parlavo dell’omologazione dei tempi moderni. L’articolo era buono, ma non come quello contro Tortora. Eppure stavolta me lo pubblicò! Chiaretti mi sostenne sempre, fino all’ultimo, e vide in me una grande risorsa.

Con mons. Gervasio Gestori c’è stato un rapporto completamente diverso. Mentre era segretario della CEI, mio figlio, che abitava a Roma, lo vedeva tutti i giorni, anzi è stato il prete che lo ha sposato. Quindi, quando venne a San Benedetto, io già lo conoscevo. Di lui conobbi una virtù che nessuno gli ha mai riconosciuto: la carità. Riceveva in casa anche gente che stava in difficoltà economica, senza alcun problema, senza alcuna remora. Non è un caso che, durante il suo mandato episcopale, abbia sistemato la Caritas.

Con mons. Carlo Bresciani ho avuto un rapporto meraviglioso: certamente non posso dire di aver avuto con lui la stessa familiarità che ho avuto con gli altri, ma è stato un grande ascoltatore. Una volta mi regalò una cartolina con su scritto: “A Pietro, acuto osservatore”.

Di mons. Gianpiero Palmieri, invece, mi ha colpito l’affabilità e la capacità di entrare subito in empatia con i suoi interlocutori. Un giorno, il direttore de L’Ancora, Simone Incicco, mi ha fatto una sorpresa ed è venuto a casa da me con lui. Ho provato una grande emozione. Insieme abbiamo parlato di argomenti molto importanti ed impegnativi, come la mia malattia e l’unione delle due Diocesi del Piceno. Ho capito subito che è un tipo attivo, giovane nell’età ma soprattutto nello stile: mi ha impressionato il dinamismo che ho visto quella sera e che continua a mostrare da oltre un anno.

Poco fa ha accennato alla sua malattia. Come sta vivendo questo tempo segnato dalla sofferenza fisica? Quale speranza sente possa esistere per lei e per i tanti anziani e malati?

Aveva ragione papa Francesco, quando diceva che la vecchiaia è una benedizione. Io ne sono proprio convinto. Si tratta di saperla prendere e di darle quel valore giusto che la nostra età ha. Ed è questo: la mia malattia è inguaribile, quindi io pian piano mi distruggo, ma non per volontà mia, ma per la malattia stessa. E a questo punto cosa devo pensare? Da buon cristiano devo pensare che mi devo preparare per la buona morte. Io mi sono preparato anche una preghiera per quando morirò. Perché? Perché non bisogna avere nessuna paura. Anzi, finché possiamo, noi anziani dobbiamo aiutare i giovani ad andare avanti. Io mi sto preparando in questo modo e dico sinceramente che, quando ricorro al Signore, in qualche modo – o direttamente o indirettamente – mi sento aiutato.
Quindi consiglio a tutti quelli che sono sulla strada in cui sono messo anche io, di poter ogni volta al mattino dire al Signore: ‘Aiutami!’. Non dobbiamo dire altro.

Durante i giorni di Quaresima, ho ascoltato in televisione un predicatore meraviglioso che mi ha fatto capire tante cose che stanno nel Vangelo e che mai ho apprezzato, preso da altri passi più celebri o situazioni contingenti che mi hanno fatto focalizzare su altro. Stamattina, ad esempio, mi sono messo a piangere, perché ti dico sinceramente che un po’, il desiderio di vedere il Signore ce l’ho, ce l’ho veramente. Quando parliamo di Paradiso, non è che dobbiamo parlare di chissà che cosa! Dobbiamo parlare del compimento di noi stessi. Sì, il compimento di noi stessi. Perché per noi, l’esistenza nostra è con Gesù! Con Gesù che ci ha salvato. Noi, di fronte al peccato, non potevamo fare nient’altro. Solo Dio, che si è fatto uomo, ha potuto, attraverso Gesù, mettere a posto il nostro peccato. Allora non ci stava altra strada e Gesù l’ha accettato. Così è per noi. Più andiamo avanti e più ci accorgiamo di questo, della fatica della croce e di quanto sia stato grande Gesù. Ecco perché dovremmo ringraziarLo tutti i giorni. Quando mi dicono “Beato te, che stai per fare 90 anni!”, penso che, anche se sto soffrendo molto, hanno ragione, perché mi avvicino sempre più alla croce di Gesù.
Un giorno, mentre stavo pregando i Misteri Dolorosi, ho detto a Gesù: “Quando tu mi hai detto «Prendi la croce e seguimi», io ti ho risposto di sì, ti ho preso in parola: ora la croce ce l’ho veramente e cerco di seguirti, quindi non mi posso più nemmeno lamentare, perché te l’ho detto io! Quindi, Gesù, aiuta tutti i vecchi come me, quelli che hanno 90 anni, ma anche quelli più giovani e quelli ancora più vecchi. Aiutaci a sopportare il dolore, che è stato anche il tuo dolore, e conduci tutti noi a vedere il tuo volto”.

Permettimi un ricordo che per me è di grande aiuto, specialmente nei giorni bui. Nei mesi passati, ho avuto modo, attraverso L’Ancora on line”, di ricordare l’amico Federico Sciocchetti. Tra i documenti datimi dal figlio Ventidio, ho trovato una copia del manifesto funebre che, a detta del figlio, fu dettato dallo stesso Federico alcuni giorni prima della morte:
† Stamane è stato partorito all’Eternità di Dio,
finalmente felice di correre “su pascoli erbosi” e di nuotare “ad acque tranquille”,
Federico Sciocchetti-Vitale, novantenne,
eletto dal Signore a seguirlo sulla Croce dell’infermità 74 anni orsono
e a condividere con Lui il premio della Gloria†

Che gioia al mattino poter recitare : “Fatto Cristiano e…”! Grazie, Signore!

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4 commenti

  • Elsa
    05/08/2025 alle 10:28

    Buon compleanno professore, ho letto la sua storia che mi ha portata a ricordare la storia dei miei genitori vissuti in piazza Garibaldi. Il Signore l'ha sempre portato in mano facendogli vivere momenti non belli ma soprattutto gli ha messo a fianco persone indicandone la strada per arrivare dove è arrivato. Vorrei scrivere tante belle parole, mi fermo dicendo "Gesù e con te" Buon Compleanno

  • Giuseppe Mercuri
    05/08/2025 alle 16:26

    Un caro augurio di buon compleanno ad un uomo che ha conosciuto la vera vita, dando esempio di moralità e serietà. Un forte abbraccio al mio vicino di casa.

  • Ubaldo
    06/08/2025 alle 06:04

    Buon compleanno caro Pietro. Bella testimonianza “a cuore aperto” che dimostra quello che sei sempre stato per chi ha avuto la fortuna di conoscerti : uomo di fede, pieno di speranza animato da profonda carità. “Signore, aiutami” la stessa invocazione nel Vangelo di ieri di Pietro (l’apostolo) “Signore, salvami” e Gesu’ ha steso il braccio. Grazie per tutto quello che ci hai donato in questi anni, continua a stimolarci anche con le “quintiliane” riflessioni. Un abbraccio

  • Luigi Vecchiarelli
    06/08/2025 alle 07:57

    Tanti cari auguri Pietro. Sei una persona speciale e unica e mio superlativo professore alle medie. Esempio per la mia generazione e per tanti che lo hanno ascoltato e incontrato. Ti auguro ogni bene e ti penso.

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