“Indispensabile attivare subito una iniziativa politica prima che i fuochi – come è accaduto in questi anni – si riaccendano”. È quanto chiede Piero Fassino, del Consiglio direttivo del Cespi (Centro studi di politica internazionale), nell’editoriale della newsletter di maggio, nel quale affronta la recente escalation di guerra tra Israele e Hamas e altre fazioni islamiche della Striscia di Gaza. Fassino evidenzia la crescita “in entrambi i campi di posizioni oltranziste e radicali che hanno messo in discussione il processo di pace” che aveva segnato dei passi avanti, 28 anni fa, con gli Accordi firmati da Rabin e Arafat a Washington sotto lo sguardo garante di Bill Clinton.

“Continui stop and go, ripensamenti e reciproche recriminazioni – scrive Fassino – hanno sfibrato quegli accordi e logorato il principio su cui erano fondati: il reciproco riconoscimento della esistenza su quella terra di due diritti ugualmente legittimi, il diritto di Israele a esistere, nella sicurezza e riconosciuto dai suoi vicini e il diritto al popolo palestinese a vivere in un proprio Stato”. “È esattamente dal ripristino di quel riconoscimento – annota l’esperto – che deve muovere oggi la riapertura di un percorso negoziale. E lo si può fare rimuovendo tutto ciò che ha messo in discussione quel principio”. Da qui il richiamo alla responsabilità della comunità internazionale: “Anni di conflitti hanno scavato un solco di rancore, odi, spirito di vendetta rendendo più difficile che israeliani e palestinesi si siedano allo stesso tavolo se non c’è una robusta iniziativa internazionale che convinca le parti a riprendere il cammino di un negoziato, accompagnandoli, assistendoli e facendosi garanti delle soluzioni convenute”. Sbloccare un conflitto che si protrae da più di 70 anni, per Fassino, “è peraltro indispensabile non solo per dare finalmente pace e sicurezza a due popoli, ma anche contribuire a un processo di stabilizzazione del bacino mediterraneo-mediorientale che, dallo Stretto di Hormuz a Gibilterra, è investito da una sequenza di guerre (Siria, Libia, Yemen), instabilità (dal Libano alla Tunisia al Sahel) che richiedono di essere sedati e volti a soluzioni politiche. Proprio quel che è accaduto in queste settimane in Medio Oriente ci dice che ai conflitti non c’è soluzione militare e che, per quanto difficile, bisogna perseguire con determinazione soluzioni politiche”. Anche perché non mancano segnali di speranza come la “grande manifestazione convocata all’indomani della cessazione delle ostilità militari dal fronte democratico e pacifista che ha visto migliaia di israeliani – ebrei e arabi – sfilare uniti per Tel Aviv reclamando la ripresa di un percorso di dialogo e di negoziato per restituire pace e sicurezza a israeliani e palestinesi”.

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