DIOCESI – Abbiamo intervistato don Alfonso Rosati, nuovo parroco di Montelparo, per rivolgergli le nostre congratulazioni e un sentito in bocca al lupo per il nuovo incarico.
Com’è diventato sacerdote? Qual è stata la sua chiamata?
«Sono stato uno degli ultimi, se non l’ultimo, a fare la cosiddetta gavetta: dal seminario delle medie a Montalto, con il precedente parroco di Ragnola, don Franco. Successivamente il vescovo ci ha inviati a Osimo per il seminario; nel frattempo ho frequentato il liceo classico ad Ancona.
Lì si è trattato di fare una vera scelta: decidere se continuare a vivere quell’esperienza. Mi consigliarono di andare a Fano per studiare teologia ed è stato proprio a Fano che ho maturato la decisione di proseguire su questa strada. Non ci sono stati grandi scossoni interiori: è stata piuttosto una crescita lenta e costante. Mi sono messo a disposizione nel servizio, cercando di fare qualcosa a beneficio degli altri.
Durante gli studi teologici ho collaborato anche con l’Unitalsi, partecipando a diversi pellegrinaggi, come Loreto e Lourdes, in particolare durante il soggiorno a Ferrà: lì il servizio si è ulteriormente ampliato. Dopo l’ordinazione ho servito diverse parrocchie; è stato un approfondimento graduale e progressivo. Un percorso che, potessi tornare indietro, rifarei senza esitazioni».
Come gestisce lo stress di questo nuovo incarico?
«Ricordo che l’allora vescovo Chiaretti mi affidò due parrocchie, Montelparo e Rotella, dopo appena due anni e mezzo di sacerdozio. Due realtà molto diverse tra loro, che richiedevano modalità differenti di gestione. In quegli anni arrivavo a percorrere anche 30–40 mila chilometri all’anno; c’era l’energia della giovane età e gli spostamenti diventavano occasioni di incontro con ragazzi e famiglie.
Oltre alla pastorale, c’è stato spazio anche per lavori concreti: a Rotella abbiamo ristrutturato la casa e l’appartamento parrocchiale. Ricordo ancora la prima notte che ci dormii, dopo quasi tre anni di lavori: puntuale, a mezzogiorno, arrivò la telefonata del vicario… era aria di trasferimento!
Posso solo dire grazie per la fiducia che mi è stata accordata dalle parrocchie che ho avuto l’onore di servire: abbiamo lavorato, saldato vecchie pendenze e lasciato ovunque una situazione sana. Ma ciò che più mi è rimasto nel cuore sono le relazioni umane, più ancora della gestione delle strutture. Il clima di familiarità che si crea è ciò che conta davvero.
Per Montelparo si tratta di un ritorno. Non so se ripercorrerò gli stessi passi: ci sono generazioni ed esperienze nuove. Mi ha comunque molto lusingato la fiducia del vescovo Palmieri che, dopo avermi rimosso, mi ha affidato nuovamente due parrocchie, Montelparo e Val d’Aso, dopo gli ultimi anni trascorsi tra Fosso dei Galli (Colonnella), Centobuchi e Villarosa».
Quale deve essere, secondo lei, il ruolo di una parrocchia all’interno di una comunità?
«Le parrocchie della costa e quelle dell’entroterra sono realtà diverse. Nell’interno si crea più facilmente un clima di famiglia allargata: le relazioni sono il punto di forza e c’è un forte attaccamento alle persone.
A Rotella, ad esempio, i parroci venivano cambiati spesso; a Montelparo, invece, c’è stata una lunga tradizione di presenza stabile del sacerdote, che negli ultimi tempi si è un po’ persa. Non c’è nulla da ricostruire, ma piuttosto da ricucire, non per colpa di qualcuno, ma a causa del frequente avvicendamento di preti rimasti per periodi brevi. Per le parrocchie dell’entroterra la stabilità è un elemento fondamentale».
Cosa significa per lei la fede? Come la vive quotidianamente?
«La fede per me è affidamento e provvidenza: tenere gli occhi aperti, ma anche avere la consapevolezza di non essere soli o abbandonati. A volte facciamo un po’ di testa nostra, ma – come dico spesso – qualche riga di Vangelo sa illuminare la carreggiata.
La fede è anche relazione. Pensiamo agli Apostoli, uno più “screanzato” dell’altro, eppure capaci di portare avanti la storia del Signore. Gesù stesso si è affidato a noi, chiedendoci di accoglierlo e di camminare insieme. Non è sempre facile: quando prevale l’umanità si fa fatica, ma vivendo davvero l’esperienza di fede, con i piedi per terra, si può vivere una bellissima storia d’amore.
Il Signore ci ama nella sua Misericordia, nonostante peccati e difficoltà, e ci accompagna aiutandoci a guardare oltre le apparenze. La fede ci permette di vedere meglio e di illuminare il cammino verso nuove esperienze. Un esempio concreto è la domenica della gioia, che richiama attesa e speranza rinnovata.
In conclusione, la fede è anche contemplazione: fermarsi ad osservare le cose belle».
Come vede il rapporto tra la Chiesa e le altre religioni?
«Un po’ più di dialogo ci aiuterebbe a viverlo meglio. In fondo lavoriamo nello stesso campo. Quando vado a benedire luoghi dove sono presenti persone di altre religioni, invito sempre anche loro a pregare. Il confronto rispettoso può portare arricchimento, senza perdere identità, autorevolezza ed esperienza di fede.
Le parrocchie vivono in territori sempre più multiculturali e multireligiosi: più che alimentare una “guerra di religioni”, dovremmo cercare la via del dialogo, senza rinunciare alla nostra stabilità. Con alcune persone è difficile, perché molto rigide; con altre, invece, si può costruire una bella storia.
Ricordo un’esperienza al carcere del Marino del Tronto: partendo dalla figura di Abramo, comune a più tradizioni religiose, abbiamo introdotto il tema della pace. Siamo riusciti a pregare insieme, leggendo un passo dell’Antico Testamento, alcune preghiere indiane e versetti del Corano. Non è stato semplice, ma è stato significativo».
Cosa le dà più gioia nel suo ministero?
«Il sentirsi chiamato per nome. Una volta una persona mi chiese da quanto tempo fossi in parrocchia: quando risposi “solo” un anno e mezzo, rimase stupita, convinta che fossi lì da sempre.
È questo che mi dà più gioia: le relazioni umane, la familiarità che permette di avvicinarsi, dialogare e camminare insieme. È ciò che porto nel cuore più di qualsiasi evento o iniziativa».
