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Verso la terza Assemblea. Mons. Andreozzi: “È il tempo della corresponsabilità e delle scelte condivise”

(Foto Calvarese/SIR)

Di Riccardo Benotti

Cresce, nella Chiesa italiana, il desiderio di camminare insieme, riconoscersi corresponsabili, lasciarsi formare dal Vangelo. Alla vigilia della terza Assemblea del Cammino sinodale (25 ottobre), mons. Andrea Andreozzi, vescovo di Fano-Fossombrone-Cagli-Pergola, rilancia con fiducia il senso di un percorso che ha aiutato le comunità a uscire da sé, a costruire relazioni, a generare apertura. Ora, afferma, è “il tempo di un discernimento condiviso, di scelte concrete, di uno stile sinodale da vivere nella quotidianità ecclesiale”.

(Foto SIR)

Eccellenza, cosa ci ha insegnato finora il Cammino sinodale?
Le dinamiche principali di questi anni risiedono nella disponibilità a compiere un autentico esercizio di ascolto e di discernimento condiviso. Su questo dovremo ancora impegnarci molto, perché non siamo del tutto “collaudati”: direi che siamo in una fase di apprendimento, non tanto del metodo, quanto dello stile sinodale. È una questione di mentalità, di stile di vita ecclesiale, che richiede tempo. Mi pare inoltre emerga la volontà di inserire le diocesi in un cammino comune, a partire da alcune priorità condivise. Un terzo aspetto è la corresponsabilità: riconoscere che tutti siamo parte di un unico corpo e che ciascuno ha un ruolo nella vita della Chiesa.

La Chiesa italiana è pronta a compiere scelte condivise?
Sì, certamente. L’ascolto, se autentico, conduce sempre a un tempo di scelte. Si tratta di comprendere quali decisioni assumere e con quale ordine di priorità. Non è semplice fare scelte che vadano bene per tutti, ma

Ogni diocesi è chiamata a leggere il proprio territorio e a discernere che cosa sia più urgente e che cosa possa venire dopo.

A mio avviso, è fondamentale costruire un quadro comune, un orizzonte condiviso in cui ritrovarsi. Da lì, ogni vescovo e ogni Chiesa locale potranno agire con attenzione e fedeltà alle necessità del territorio.

Qual è il frutto più concreto che questo processo di ascolto ha già generato?
L’ascolto ha favorito anche la costruzione di relazioni, ci ha permesso di lasciarci provocare da altri contesti ecclesiali e sociali e, al tempo stesso, di offrire la nostra testimonianza. È sempre un movimento reciproco. Questo cammino ha aiutato molti a uscire da sé: il primo passo è stato proprio quello di superare i confini delle nostre comunità, evitando il ripiegamento interno. È un esercizio di apertura che resta essenziale.

Il Documento di sintesi parla di “rinnovamento missionario”. Che cosa significa, concretamente, per una comunità ecclesiale?
Significa non perdere di vista la nostra vocazione fondamentale. Ci invita a non chiuderci, a non limitarci a conservare ciò che resta. A volte c’è la tentazione di non chiudere nulla, ma neppure di aprire nulla di nuovo.

Occorre invece un cambiamento di prospettiva: rimanere aperti al tempo presente e, dentro questo tempo, vivere autenticamente la missione.

È la missione che ci definisce: senza questa dimensione, e senza una conversione continua, il nostro agire e il nostro credere rischiano di svuotarsi.

(Foto Calvarese/SIR)

La formazione può diventare una leva decisiva per ripensare la vita ecclesiale?
Sì, senza dubbio. Sotto il tema della formazione confluiscono molte sfide. La principale riguarda la possibilità di essere formati alla vita cristiana, a partire da noi stessi. È il Vangelo che deve formarci, plasmarci, renderci capaci di vivere come discepoli. La formazione è strettamente legata alla nostra identità e al modo in cui apparteniamo alla Chiesa. Solo lasciandoci formare dal Vangelo possiamo poi proporre percorsi autentici di fede. In questo modo la formazione diventa trasmissione: non un programma da applicare, ma una testimonianza da offrire.

C’è attesa per un cambiamento reale nel volto della Chiesa italiana. Lei con quale spirito guarda a questo passaggio?
Con speranza e realismo. È stato un lavoro prezioso, da accogliere con rispetto e gratitudine verso quanti vi hanno dedicato tempo e impegno. È giusto che ora giunga a un traguardo come quello di sabato, affinché possa essere consegnato come un seme da gettare nel terreno.

Guardo con realismo perché il cammino è stato faticoso, e non sono mancati momenti di scetticismo. Ma questo non toglie valore al percorso compiuto: ora tocca a noi viverlo, traducendolo in scelte e prassi concrete.

Sono fiducioso e attratto dalla novità: anche quando ciò che è nuovo può apparire difficile o estraneo, rappresenta comunque uno stimolo, un appello alla conversione. È un processo che coinvolge tutti, e che ci invita a proseguire con perseveranza.

Qual è, secondo lei, la sfida più urgente per la Chiesa italiana dopo questa Assemblea?
La grande mole di lavoro prodotto non deve trasformarsi in un trattato, ma restare un processo da vivere. È necessario fare del metodo sinodale uno stile personale e comunitario. Il Documento contiene numerose proposte, frutto di confronto e anche di dibattito acceso, ma deve essere considerato sia come un punto di arrivo che come un punto di ripartenza. Il Cammino sinodale non si chiude: si trasforma ora in vita quotidiana.