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Sorelle Clarisse: Nessuna catena alla Parola di Dio

DIOCESI – Lectio delle Sorelle Clarisse del Monastero Santa Speranza di San Benedetto del Tronto.

Naaman, comandante dell’esercito del re di Aram, protagonista della prima lettura e i dieci uomini che vanno incontro a Gesù, protagonisti della pagina evangelica di questa domenica.

Cosa hanno in comune? Hanno in comune il fatto di essere lebbrosi. La lebbra, al tempo di Gesù, era una malattia di una gravità unica in quanto considerata contagiosa ma, soprattutto, impura. Era equivalente alla morte fisica e sociale della persona che l’aveva contratta tanto che, questi, doveva tenersi lontano dal villaggio e da tutti i suoi abitanti, non solo per il timore del contagio ma più che altro perché era prescritto dalla legge.

Naaman viene guarito dal profeta Eliseo che lo invita a immergersi sette volte nel fiume Giordano. Gesù, invece, invita i dieci uomini lebbrosi che gli si presentano, ad andare dai sacerdoti del tempio, coloro, cioè, che potevano certificare la guarigione assoluta. «E mentre essi andavano, furono purificati».

Naaman, dopo la guarigione, «tornò con tutto il [suo] seguito da Eliseo». Dei dieci lebbrosi uno solo, per giunta un samaritano, torna da Gesù, dice il Vangelo, per ringraziarlo.

Tutto questo per dire cosa?

Di sicuro la parola di questa domenica non vuole impartirci una lezione di galateo, non vuole mostrarci cosa sia la buona educazione e cosa non lo è.

Naaman non torna a dire “grazie”, questa è educazione. Naaman torna da chi lo ha guarito per dire “ho trovato, ho sperimentato il vero Signore della mia vita, il mio vero Dio, davanti al quale metto la mia vita”.

Anche dell’unico dei dieci lebbrosi che torna da Gesù, la Parola ci dice che fece la strada indietro «lodando Dio a gran voce, e si prostrò davanti a Gesù, ai suoi piedi per ringraziarlo».

In questo atteggiamento importante non è tanto l’atto di ringraziamento, quasi che Dio sia in cerca del nostro grazie, bisognoso di contraccambio. Il lebbroso di Samaria è guarito o, meglio, è salvato non perché paga il pedaggio pur santo della gratitudine, ma perché entra in comunione. Con il proprio corpo. Con i propri sentimenti, con il Signore. E rende gloria a Dio.

Gloria e peso sono la stessa parola in ebraico: quindi, rendere gloria a Dio è riconoscere il suo peso nella nostra vita.

E “tornare” è il verbo della conversione, del ritorno a Dio, è il tornare a casa dopo essersi allontanati. Questo lebbroso cambia la sua malattia in benedizione, la sua estraneità e lontananza da Dio in amicizia, in rapporto di intimità. Torna perché si lascia cambiare da Gesù stesso, si lascia raggiungere dal suo amore. Ormai il tempio, il punto di arrivo che la legge prescrive per il personale percorso di guarigione, non è più la costruzione di pietra, ma è il tornare verso colui che ti ha chiamato alla vita.

Scrive San Paolo al vescovo Timoteo: «Figlio mio, ricordati di Gesù Cristo, risorto dai morti, discendente di Davide, come io annuncio nel mio vangelo…».

Puoi decidere di far rimanere il miracolo appena ottenuto una possibilità che la vita ti ha dato in quel momento di risolvere una determinata situazione … oppure … puoi tornare indietro e scegliere di giocarti in una relazione che va oltre, perché riconosci che quella esperienza non solo ti ha salvato dalla lebbra, dalla malattia, non solo ha ridonato libertà e dignità al tuo corpo malato ma, soprattutto, ha ridonato respiro, vigore alla tua anima.

Come dice ancora San Paolo nella lettera a Timoteo, infatti, «la Parola di Dio non è incatenata»! Non è soggetta a leggi, a norme, a riti ma vuole essere essa stessa “norma, legge” di libertà per la nostra vita.