- L'Ancora Online - https://www.ancoraonline.it -

La cultura della panchina come indicatore di civiltà urbana

Di Yuleisy Cruz Lezcano

In un tempo dominato dalla velocità, dalla competizione e dalla continua pressione alla produttività, la possibilità di fermarsi, osservare, aspettare o semplicemente respirare diventa un gesto quasi rivoluzionario. Fermarsi è diventato difficile, non solo mentalmente, ma anche fisicamente: nei nostri centri urbani spesso mancano i luoghi per sostare. E una delle assenze più evidenti è quella delle panchine. La panchina, nella sua apparente banalità, è in realtà uno strumento sociale. In molte città europee, specialmente del Nord e dell’Est, è considerata un diritto urbano. A Varsavia, per esempio, una delle capitali più moderne d’Europa, le panchine sono disseminate ovunque: nei centri storici, nelle zone residenziali, nei pressi delle scuole, delle fermate, dei musei, lungo i viali e dentro i parchi. Sono parte integrante del paesaggio urbano e del tessuto relazionale: si offrono al passante, all’anziano, al genitore con bambini, allo studente, al turista. Sono gratuite, accessibili, spesso vicine a fontanelle d’acqua, a giochi per bambini, a biblioteche di strada. Creano un ecosistema urbano umano, in cui le persone possono incrociarsi, parlare, osservare, anche solo stare.

In Italia, al contrario, la situazione è più complessa. Nelle nostre città, soprattutto nei centri storici, le panchine sono poche, assenti o deliberatamente scomode. In alcune zone vengono addirittura rimosse per evitare “bivacchi” o “presenze sgradite”. A volte si installano panchine con braccioli divisori centrali, o inclinate, per impedirne l’utilizzo da parte di chi potrebbe “abusarne” per troppo tempo. Una scelta che rivela un pensiero urbano difensivo, più attento a prevenire il disagio sociale che a promuovere la convivialità. Ma possiamo davvero accettare l’idea che lo spazio pubblico debba essere gestito sulla base del sospetto? È giusto rinunciare a spazi di condivisione e riposo per paura che vengano vandalizzati?

Il tema è delicato. Il vandalismo urbano, come le scritte sui muri, la rottura di arredi, l’uso improprio di spazi pubblici, esiste e non va negato. È reale, visibile, fastidioso. In molti casi rappresenta una risposta violenta alla sensazione di invisibilità, un atto di protesta che, pur nella sua forma distruttiva, denuncia un malessere più profondo. Ma usare il vandalismo come giustificazione per non offrire spazi pubblici rischia di diventare una scusa per perpetuare un sistema chiuso, individualista, centrato sul controllo e sulla paura, più che sulla fiducia. Secondo molte analisi sociologiche, la qualità dello spazio urbano è direttamente collegata alla qualità delle relazioni sociali. Quando una città offre spazi curati, accessibili, belli e condivisibili, le persone li rispettano. Quando lo spazio è progettato solo per essere attraversato, sorvegliato o consumato, allora viene percepito come “di nessuno”. In questo senso, non è il vandalismo a distruggere i luoghi, ma l’assenza di un progetto culturale e relazionale su quei luoghi.

In Italia, più che una questione legata solo alla gestione dell’arredo urbano, siamo davanti a un problema culturale e strutturale. La panchina viene percepita spesso come inutile, persino pericolosa, perché legata a un’idea di tempo improduttivo, di pausa non giustificata. Viviamo in un modello sociale e lavorativo che valuta il tempo solo se produce un risultato tangibile. Fermarsi è sospetto, l’ozio è visto con diffidenza, il silenzio non ha valore. Ecco perché mancano le panchine: perché manca una cultura del rallentamento e della relazione non funzionale.

Ma cosa succederebbe se, invece, cominciassimo a pensare lo spazio pubblico come luogo di cura, di incontro, di possibilità? Se progettassimo città dove sedersi non è un lusso, ma un diritto? Dove le relazioni non sono solo occasionali, ma favorite dal design urbano? Dove un anziano può conversare con uno studente, un artista può trovare ispirazione osservando il via vai di un mercato, un bambino può leggere un libro all’aperto?

Le panchine, i giochi urbani, le piazze accessibili sono segni concreti di una democrazia viva, di una città che mette al centro le persone. Non solo come cittadini produttivi, ma come esseri umani in relazione. L’urbanistica relazionale, oggi, ci invita a ripensare radicalmente il senso dello spazio pubblico. Non solo come passaggio o vetrina, ma come luogo di appartenenza, di connessione, di comunità. Le città che lo fanno non sono utopie lontane: Varsavia, Berlino, Amsterdam, Lubiana… tutte hanno scelto di investire sulla socialità gratuita, sulla gentilezza urbana, sul diritto di stare senza dover sempre fare.

È tempo che anche in Italia si torni a parlare seriamente di spazio pubblico, di spazi del riposo, della contemplazione, del dialogo. E che si comprenda che una panchina in più è un gesto politico, una scelta di fiducia, una dichiarazione di appartenenza a una comunità che crede nel valore del tempo condiviso. Perché forse il vero lusso, oggi, è potersi sedere in una piazza, guardare il cielo e sapere di non essere soli.