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Grottammare, il giovane Paolo Vagnoni: “Pellegrini di speranza non per cinque giorni, ma per sempre”

GROTTAMMARE – Riportiamo di seguito alcuni pensieri del giovane Paolo Vagnoni, che ha 14 anni ed appartiene all’Unità Pastorale San Pio V e San Giovanni Battista a Grottammare. Il ragazzo, dal 27 al 31 Luglio scorso, ha partecipato al campo scuola “Pellegrini di speranza”, organizzato dai gruppi del catechismo delle due parrocchie.

Queste le sue riflessioni:

Cinque giorni. Solo cinque giorni, che sono sembrati un’estate intera. Quanti ricordi, quante emozioni, quante esperienze!

Tutto è cominciato lo scorso 27 Luglio, quando siamo partiti da Grottammare per il campo scuola della parrocchia di San Pio V con i nostri fantastici catechisti, il nostro infaticabile don Federico (n.d.r. Pompei), uno zaino in spalla e un tema in mente: “Pellegrini di speranza”. Un titolo che, giorno dopo giorno, ha preso vita nei nostri gesti, nelle nostre parole.

Il primo passo di ogni pellegrino è la partenza. La nostra è iniziata con sorrisi, valigie e curiosità. Ma non si arriva subito alla meta: il viaggio di un pellegrino è fatto di soste, di tappe, di luoghi.

Così ci siamo fermati al Santuario della Madonna dell’Ambro, dove siamo stati letteralmente incantati da Frate Mago, ovvero padre Gianfranco Priori, che ci ha tenuti sospesi con la sua arte, insegnandoci che la magia si può trovare ovunque: nei piccoli gesti, nel suono dell’acqua, in un paesaggio, oltre che in un mazzo di carte.

Nel pomeriggio siamo giunti a destinazione, a Sassotetto, e lì ci si è aperto un panorama così vasto da sembrare un dipinto: l’aria luminosa risplendeva sui monti e in lontananza perfino sul mare. Anche lì,  in quell’orizzonte infinito, ho sentito che la magia continuava.

Un pellegrino non cammina mai da solo. Così abbiamo iniziato la nostra prima escursione. Camminare in montagna è faticoso, certo, ma non quando si è circondati dalla natura e dagli amici. In quei momenti abbiamo capito che un pellegrino di speranza non guarda solo avanti, ma si volta, si gira intorno, vede chi è affaticato, si accorge di chi è rimasto indietro, di chi ha bisogno di un bastone o di una semplice frase.

Un pellegrino non ha confini. Se piove, indossa il cappuccio; se fa freddo, si copre; se c’è la nebbia, continua a camminare affidandosi alla speranza. Così siamo andati ad Assisi, con la nebbia e un freddo pungente, ma, arrivati là, le nuvole si sono alzate, come se il cielo volesse accoglierci, lasciando liberi i raggi del sole, così da inondare di luce le chiese dove abbiamo pregato.

Quando siamo giunti davanti alla basilica di Santa Chiara, c’è stato il momento più bello di tutto il campo: nella piazza c’era una grande folla di giovani, ragazzi e ragazze come noi, grandi e piccoli. Ma in quell’istante, ogni differenza è svanita. Erano tutti riuniti in cerchio, mentre ballavano al ritmo di una musica in lingua straniera cantata da altri ragazzi. Ci siamo ritrovati intorno a loro, a imparare la danza uniti da una melodia. Ero lì, tra un ragazzo polacco e uno indiano, ma ciò ormai non importava più. Il nostro canto aveva distrutto le barriere che ci separavano: nessuna distanza, nessuna divisione. Solo una comunità unica, globale, senza confini di lingua, di provenienza o di aspetto. Allora abbiamo capito il significato di essere “pellegrini di speranza”: significa riconoscere fratelli anche coloro che sono sconosciuti; significa portare la luce dove non c’è; significa creare ponti dove prima c’erano muri; significa credere che la speranza nasce da lì, quando ti accorgi che non sei solo, ma parte di qualcosa di più grande.

È così che siamo ritornati, sapendo che ora iniziava la vera partenza: pellegrini non si è per cinque giorni soltanto, si è per sempre.