Di Yuleisy Cruz Lezcano
Conciliare lavoro e famiglia rappresenta una delle sfide più complesse per le donne italiane, soprattutto nel periodo estivo, quando le scuole chiudono per quasi tre mesi e il congedo parentale disponibile è insufficiente a coprire interamente il bisogno di assistenza ai figli. La situazione, già difficile, viene aggravata dalla scarsa flessibilità delle istituzioni, dall’alto costo delle babysitter e dalla rigidità delle politiche di congedo, che rendono le vacanze estive un vero e proprio incubo per molte famiglie.
Il congedo parentale, misura pensata per sostenere i genitori nella cura dei figli, risulta largamente insufficiente soprattutto nel mese di agosto e nelle tre settimane di settembre, quando le scuole restano chiuse. Inoltre, la normativa italiana prevede che se i giorni di congedo non sono intervallati da almeno un giorno lavorativo, anche il sabato e la domenica vengono conteggiati come giorni di congedo, decurtando così ulteriormente le giornate disponibili. Questo meccanismo, poco sensato e penalizzante, impedisce di utilizzare in modo efficiente il congedo stesso. La scelta di questa norma, che all’apparenza può sembrare tecnica, in realtà riflette un approccio legislativo poco attento alle esigenze reali delle famiglie. In molti Paesi europei si adottano invece soluzioni più flessibili, che permettono di ottimizzare l’uso dei giorni di congedo senza “sprecare” weekend o giorni non lavorativi, rendendo il sostegno concreto e tangibile.
Le scuole chiudono nel periodo estivo senza tenere conto delle difficoltà delle famiglie, lasciandole spesso senza alternative valide. I centri estivi, che potrebbero rappresentare una soluzione, chiudono anch’essi, oppure sono troppo costosi o poco accessibili. Il risultato è che molti genitori, soprattutto madri, sono costretti a utilizzare il congedo parentale come “prolungamento” delle ferie per coprire le assenze scolastiche. Il sistema scolastico italiano è storicamente poco incline a coordinarsi con le esigenze della società e del mercato del lavoro. Le vacanze estive lunghe, che superano anche le dodici settimane, sono un’eredità culturale e politica di lungo corso, che si è consolidata senza un adeguato confronto con le mutate esigenze di famiglie con genitori lavoratori.
Affidare i propri figli a babysitter è un’opzione spesso praticata, ma presenta notevoli difficoltà. Le tariffe sono molto elevate e non tutte le babysitter sono preparate o affidabili, costringendo molte famiglie a lasciare i propri figli a persone estranee, con inevitabili preoccupazioni e ansie. La scelta è quindi quasi sempre obbligata, perché rinunciare a lavorare per mesi è impossibile. Il ricorso alle babysitter sottolinea inoltre un grave problema sociale: la mancanza di un sistema di servizi pubblici per la cura dell’infanzia. Questa lacuna non solo pesa sulle famiglie, ma alimenta anche un mercato privato spesso sommerso, con condizioni di lavoro precarie per le lavoratrici del settore e assenza di garanzie per i bambini.
Le difficoltà non si fermano qui. Per andare in ferie, infatti, i due genitori devono spesso dividere il mese di agosto e le settimane di settembre, alternandosi per coprire le vacanze dei figli. Questo comporta un grande disagio, perché la famiglia non riesce a godersi un periodo di riposo insieme, fondamentale per la coesione e il benessere di tutti i membri. Questa modalità di organizzazione delle ferie, imposta dalla mancanza di alternative concrete, amplifica la fatica psicologica e fisica delle famiglie, e riduce drasticamente la qualità della vita, soprattutto in un momento che dovrebbe invece rappresentare un’opportunità di recupero e rigenerazione.
Uno studio della Fondazione Gi Group e Valore D ha evidenziato come nel nostro Paese, nonostante il record di vacanze estive (più di 12 settimane), la spesa per nidi e scuole materne sia minima. I congedi parentali rappresentano spesso l’unica misura concreta di sostegno, ma sono troppo brevi e male strutturati rispetto a quelli di altri paesi europei come Francia, Germania o Svezia, dove la conciliazione tra lavoro e famiglia è supportata da servizi ben finanziati e flessibili. La spesa pubblica per i servizi all’infanzia in Italia si attesta a circa il 15% del totale dedicato al sostegno alla genitorialità, contro una media europea ben più alta. Questo squilibrio ha conseguenze profonde: meno servizi significano maggiori costi e difficoltà per le famiglie, che si traduce in un effetto negativo sul tasso di occupazione femminile e sulla natalità.
La mancanza di servizi adeguati obbliga spesso i nonni, anch’essi sempre più anziani e lontani, a svolgere il ruolo di caregiver, caricando sulle donne un doppio fardello: lavoro fuori casa e cura della famiglia. Questa “generazione sandwich” porta con sé vecchi pregiudizi che relegano la cura dei figli quasi esclusivamente alle madri, nonostante un lento aumento dei padri che usufruiscono del congedo di paternità, ancora però troppo timidi a causa di possibili ripercussioni lavorative. Il modello culturale italiano continua a mantenere rigide divisioni di genere, con la donna ancora vista prevalentemente come la “custode” della famiglia. Questo fenomeno, radicato nella società e anche nelle aziende, si traduce in discriminazioni più o meno esplicite, difficoltà di carriera e spesso in una minore disponibilità dei padri a prendersi cura dei figli.
Le difficoltà di conciliazione tra lavoro e famiglia sono in larga parte il risultato di scelte politiche e sociali che riflettono una scarsa priorità data al tema della genitorialità. La spesa pubblica bassa per servizi all’infanzia, la rigidità delle normative sul lavoro e la persistenza di stereotipi di genere sono la somma di anni di politiche insufficienti o mal calibrate. Il sistema di welfare italiano si basa ancora molto su un modello familiare tradizionale, in cui si dà per scontato che sia la famiglia a farsi carico dell’assistenza e della cura, con un peso sproporzionato sulle donne. Questo modello, ormai superato nelle società moderne, si scontra con i cambiamenti demografici, sociali e culturali: l’aumento dell’età media dei genitori, la mobilità lavorativa, la riduzione della disponibilità dei nonni come rete di sostegno.
Politicamente, gli interventi sono spesso frammentati, con misure come bonus e assegni che non riescono a incidere sulla realtà quotidiana, e con congedi parentali pensati più come strumenti simbolici che come vere risposte alle necessità familiari. Inoltre, l’assenza di una reale politica di incentivazione per la partecipazione attiva dei padri nel lavoro di cura perpetua un sistema sbilanciato. Il combinato disposto di queste dinamiche ha conseguenze dirette sul tasso di natalità, che continua a diminuire in Italia, e sull’occupazione femminile, che ristagna. Se una donna sa che mettere al mondo un figlio significa ritrovarsi sola a gestire il carico di lavoro e famiglia, senza adeguati servizi o sostegni, la scelta di rinviare o rinunciare alla maternità diventa razionale.
Al contrario, paesi come Francia, Svezia e Germania, che investono molto nella conciliazione tra lavoro e famiglia, mostrano tassi di natalità più alti e una partecipazione femminile al lavoro più consistente, segno che investire nelle famiglie è anche un investimento sul futuro economico e sociale.
L’attuale sistema di conciliazione tra lavoro e famiglia in Italia è insostenibile. Le famiglie si trovano sole di fronte a un carico enorme di responsabilità, con servizi insufficienti e norme che spesso penalizzano le donne. Se si vuole davvero invertire la tendenza negativa della natalità e promuovere una maggiore partecipazione femminile al lavoro, è necessario ripensare con urgenza le politiche di congedo, ampliare e finanziare adeguatamente i servizi per l’infanzia, e promuovere una cultura più equa nella divisione dei ruoli genitoriali. Solo così si potrà garantire alle famiglie italiane una vita più serena, con più tempo per il lavoro, ma soprattutto per stare insieme. Perché il vero benessere di un paese si misura anche da quanto riesce a prendersi cura delle famiglie, dei figli e delle donne che ogni giorno provano a tenere insieme il futuro.
