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Carraro (Cuamm): “La chiusura dell’Usaid ci costringe a interrompere interventi vitali”

Di Ferruccio Ferrante

“Gli uffici sono stati chiusi e nessuno più risponde, è un dramma per la popolazione e anche per noi”. È sconfortato don Dante Carraro, direttore di Medici con l’Africa Cuamm. La chiusura dell’agenzia degli Stati Uniti per lo Sviluppo Internazionale (Usaid) con conseguente e repentina sospensione dei fondi – come denunciato anche dal Catholic Relief Services, l’agenzia di aiuti internazionali dei vescovi americani – provoca un effetto domino che costringe a interrompere interventi vitali per le popolazioni locali.
Medici con l’Africa Cuamm da 75 anni si spende per la promozione e la tutela della salute delle popolazioni africane, grazie a oltre 1.600 persone che operano in 41 paesi, soprattutto in Africa, per portare cure e servizi anche a chi vive nelle località più povere del mondo.
“Ad esempio – racconta don Dante – in Uganda ci siamo dal 1958 e possiamo dire di aver visto migliorare lo stato di salute della popolazione. Solo nel 2023 abbiamo impiegato 254 risorse umane in 68 strutture sanitarie, investendo oltre 6 milioni di euro. A Karamoja regione poverissima nord est del Paese, grazie anche al sostegno di Usaid, siamo impegnati in due progetti, uno nell’ambito della salute materno infantile e cura del neonato e il secondo sulla tubercolosi per ridurre incidenza e diffusione. Purtroppo, dopo i decreti Usa di sospendere le attività e anche i pagamenti dello staff locale di Usaid siamo stati costretti a fermare ogni tipo di attività e non sappiamo proprio come andare avanti”.
Le conseguenze maggiori ricadono proprio sulle fasce più deboli della popolazione, in particolare le mamme e i bambini che sono destinatari finali dei progetti a sostegno degli ospedali e delle strutture periferiche, ma anche delle attività di formazione di medici, infermieri, ostetriche e altre figure professionali, come ad es. avviene grazie alla Scuola Infermieri dell’Ospedale “St. Luke” a Wolisso, in Etiopia, nella diocesi di Emdeber. Nell’ospedale ogni anno nascono. 3.500 bambini e la popolazione riceve cure per Tbc, Hiv, malattie ginecologiche e ortopediche, grave malnutrizione. La scuola, coordinata dal Cuamm e ampliata con l’aiuto della Conferenza episcopale italiana, ogni anno è in grado di formare un centinaio di laureati in Scienze Infermieristiche e Ostetriche che lavoreranno per contrastare la mortalità materno-infantile.

Grazie a quanti scelgono di destinare l’8×1000 alla Chiesa cattolica, dal 1991 in ambito sanitario sono stati finanziati 1.300 progetti per 190 milioni di euro in 67 Paesi.
Un servizio prezioso, spesso silenzioso che si concretizza attraverso l’opera di tanti operatori, volontari e missionari, in tutto il mondo, accanto alle Chiese e alle comunità locali e consente di realizzare segni concreti di speranza.
Progetti che parlano di incontro, dono, condivisione. Tre aspetti della presenza di Dio vicino a chi soffre che papa Francesco ha messo in rilievo nel Messaggio per la XXXIII Giornata del Malato, sul tema «La speranza non delude» (Rm 5,5) e ci rende forti nella tribolazione”.
“In questo centro noi abbiamo trovato nei medici, negli infermieri e nel personale una famiglia. Voi non ci considerate malati, numeri, ma ci state accanto senza giudicarci né condannarci. Rispettate la nostra dignità e le nostre scelte e mi avete aiutato a capire che c’è sempre una speranza e che la vita vale comunque la pena di essere vissuta”. Sono le parole che una donna ha detto a Sara dell’’Associazione Femminile Medico Missionaria nell’ospedale Amala Matha in Karnataka, India. “Si è presentata nel nostro ospedale – racconta Sara – e le abbiamo diagnosticato una sieropositività all’Hiv. Era disperata, si vergognava, non accettava la sua malattia e voleva morire. Un giorno ha tentato il suicidio nel bagno dell’ospedale ed è stata salvata da un altro paziente. Ripeteva ”non voglio farmaci, non voglio più vivere”. Noi abbiamo continuato a prenderci cura di lei, restandole vicino. Un giorno è scomparsa. Temevamo il peggio ma dopo tre settimane è tornata. L’abbiamo accolta senza chiedere spiegazioni. Ha cominciato il trattamento e finalmente si è aperta, ha sentito il bisogno di confidarsi, di raccontarci la sua storia, i suoi vari tentativi di suicidio, ma anche la ritrovata voglia di vivere”. È solo una delle tante storie in cui la malattia, per quanto dolorosa e difficile da comprendere, diventa opportunità di fede e di rinascita e i luoghi in cui si soffre diventano luoghi di condivisione, in cui ci si arricchisce a vicenda.