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Voto in Afghanistan. “Dalle urne è uscita la voglia di democrazia, di rinnovamento e di pulizia”

Daniele Rocchi

Si sono svolte sabato 20 ottobre le elezioni per il rinnovo della Camera bassa (Wolesi Jirga) del Parlamento Afghano. Ha votato meno del 50% degli aventi diritto, vale a dire circa 4 milioni di votanti su 8.800.000 iscritti alle liste elettorali su una popolazione stimata di circa 30 milioni di abitanti. Una cifra lontana dalla soglia dei 5 milioni auspicata da Wasima Badghisy, membro della commissione elettorale indipendente. Le operazioni di voto sono state funestate da oltre 200 attentati nei quali sono rimaste uccisi decine di civili e di membri delle forze di sicurezza afgane. Il portavoce della commissione, Aziz Ismaili, ha affermato i risultati finali non saranno disponibili prima di dicembre. L’Afghanistan continua così nel sangue il suo lentissimo cammino di normalizzazione che vedrà il Paese tornare alle urne per le Presidenziali nell’aprile 2019. Non mancano, tuttavia, note di speranza, come per esempio il numero record donne candidate, ben 417 donne, circa il 16% del totale. La nuova Costituzione afghana, approvata dopo la caduta del regime dei talebani nel 2001, ha stabilito una quota rosa nel Parlamento, pari al 25% dei 250 seggi nella Camera bassa. 

Padre Giovanni Scalese

“Se dovessimo valutare il voto secondo i nostri parametri, diremmo che sono state un totale fallimento – dichiara al Sir padre Giovanni Scalese, religioso barnabita, dal 2015 a capo della Missione sui iuris in Afghanistan – ha votato meno del 50% degli aventi diritto; sono stati denunciati brogli e intimidazioni; le operazioni di voto sono state precedute e accompagnate da minacce e attentati da parte dei talebani e dell’Isis, che hanno certamente tenuto lontano dai seggi non solo molti elettori, ma anche non pochi operatori”.

Per il religioso barnabita

“il limite maggiore di queste elezioni è stato la grande confusione:

ritardi nell’apertura dei seggi; lunghe code di votanti; mancato funzionamento del nuovo sistema di riconoscimento biometrico; estensione delle operazioni di voto alla domenica (denunciata da alcuni come violazione della legge elettorale)” cui va aggiunto il rinvio delle votazioni nella provincia di Kandahar, a causa dell’attentato contro il generale Abdul Raqiz, avvenuto alla vigilia delle elezioni. “La Commissione elettorale – spiega padre Scalese – non si è dimostrata in grado di gestire un evento così complesso. C’è chi teme che la disorganizzazione possa in qualche modo delegittimare i risultati del voto”.

Segnali positivi. Tuttavia non mancano elementi positivi che fanno dire che “il voto può essere considerato un successo”. Innanzi tutto, afferma il responsabile della missione sui iuris, “bisogna considerare che si trattava delle terze elezioni dalla caduta del regime dei talebani, le prime dopo 8 anni. Il solo fatto che esse si siano svolte è già un successo.

Il voto dimostra la voglia di democrazia del popolo afghano,

checché ne dicano i talebani, per i quali queste elezioni erano solo un’imposizione degli americani estranea all’Islam e alla cultura afghana”. Oltre alla voglia di democrazia, il voto, sottolinea  padre Scalese, “sembrerebbe dimostrare anche un desiderio di rinnovamento e di pulizia: la Wolesi Jirga uscente era dominata dai signori della guerra e da personaggi corrotti; ora molti sperano che vi facciano ingresso giovani deputati che abbiano a cuore gli interessi del Paese”. A questo punto i problemi più urgenti che il nuovo Parlamento è chiamato ad affrontare sono “la sicurezza, necessaria a garantire all’Afghanistan un minimo di tranquillità, senza la quale tutto diventa più difficile, se non impossibile, e la corruzione, vero cancro nel Paese. Se queste sono le urgenze, non meno importante è il compito di costruire uno Stato democratico efficiente, con istituzioni che funzionino realmente e autosufficiente, non dipendente da finanziamenti stranieri”.

Talebani sconfitti. In attesa di conoscere l’esito del voto, chi esce sconfitto sono i talebani. Spiega padre Scalese: “non solo perché dimostrano che essi non hanno il seguito che pretendono di avere fra la popolazione, ma anche perché non sono riusciti, con le loro minacce e attentati, a tenere gli elettori lontano dalle urne.

Gli afghani hanno dimostrato di non aver paura. Il desiderio di una pacifica vita democratica è stato più forte delle bombe”.

Un risultato che, per il religioso barnabita, “potrebbe costringere i talebani a sedersi a un tavolo di trattative. Giustamente il Console generale afghano a Peshawar ha dichiarato nei giorni scorsi che il dialogo è la sola strada per raggiungere la pace e ha invitato i talebani a cercare di conquistare il potere non con la forza, ma partecipando a elezioni democratiche”.

“L’unica soluzione per l’Afghanistan consiste in un compromesso che veda la rinuncia all’uso della forza da parte dei talebani e il loro riconoscimento come un legittimo movimento politico, che partecipi alla vita democratica del Paese”.

Le potenze straniere. Chi guarda con interesse a questi sviluppi sono le potenze occidentali. “Gli Stati Uniti, ormai, non nascondono più di essere alla ricerca di una exit strategy, e queste elezioni probabilmente fanno parte di essa. Dopo 17 anni di guerra, che è costata loro 900 miliardi di dollari, senza contare il costo umano che essa ha comportato, non vedono l’ora di disimpegnarsi, lasciando al governo locale il compito di gestire la situazione. Naturalmente – aggiunge padre Scalese – un disimpegno militare non significa abbandonare l’Afghanistan a sé stesso: ci sono altri campi in cui la collaborazione è possibile e auspicabile, a cominciare da quello economico. Anzi, il ristabilimento di condizioni normali di vita – conclude il religioso – non può fare altro che favorire lo sviluppo dell’economia interna e delle relazioni commerciali con gli altri Paesi”.