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San Benedetto, Bamba: “Un clandestino ha come compagno di viaggio solo la paura”

SAN BENEDETTO DEL TRONTO – Ventuno anni di sacrifici e rinunce, due occhi grandi come i suoi sogni e un po’ di pudore nel raccontare la sua storia: questo è Bamba, uno degli ospiti più giovani della Caritas Diocesana con cui proseguiamo la nostra rubrica volta a conoscere questa bella realtà, non attraverso lo sguardo di chi vi opera all’interno, bensì attraverso l’occhio (e il cuore) di chi invece è ospitato nella struttura. Dopo aver raccontato la storia del giovane Samba, giunto dal Gambia nel 2016 e di alcune donne ucraine fuggite dalla guerra, oggi è il turno di un giovane senegalese, che, a soli 16 anni, ha intrapreso un viaggio di fortuna per arrivare clandestinamente in Italia.

Perché hai deciso di affrontare un viaggio pericoloso, in cui hai rischiato più volte la vita, pur di arrivare in Italia?
“Sono originario del Senegal e da bambino i miei genitori mi hanno mandato a scuola, quindi conosco bene la lingua francese, oltre al dialetto locale. Da noi non c’è l’obbligo di studiare: chi vuole, può far frequentare ai propri figli una scuola che, però, non è come la immaginano gli Italiani! Laggiù ci sono scuole religiose coraniche, come una specie di incontri di catechismo per i cattolici, oppure di scuole arrangiate in strutture di fortuna in cui qualche maestro o volontario fa lezione. Quando ho terminato il primo ciclo di studi, che dura sei anni e corrisponde all’incirca alla Scuola Elementare qui in Italia, sono rimasto a casa per aiutare la mia famiglia. Da noi, infatti, le famiglie sono molto diverse rispetto a quelle italiane. Qui si pensa anche all’aspetto economico, al futuro e alle opportunità da dare ai propri figli, quindi in genere ogni coppia non fa più di uno o due figli. In Senegal, invece, una famiglia numerosa è una benedizione di Dio ed è considerato bello avere tanti fratelli. La mia famiglia, ad esempio, è composta da tante persone: mio padre, che lavora nel commercio del pesce fresco; mia madre, che è la seconda moglie di mio padre ed accudisce i miei fratelli; la prima moglie di mio padre, che per me è una zia speciale, anzi una seconda mamma; otto tra fratelli e sorelle. Tra tutti noi c’è un bellissimo rapporto, anche tra le due mogli di mio padre: spetta infatti all’uomo essere equilibrato, dare attenzioni ad entrambe le mogli e non alimentare gelosie. Ad ogni modo, stavo dicendo che, dopo aver terminato il primo ciclo di studi, intorno ai dodici anni, mi sono reso conto che avrei voluto scegliere io cosa fare da grande e non stare a casa. In Senegal i lavori da fare per chi non ha un’istruzione sono davvero pochi: commerciante, contadino o pescatore. E comunque di lavoro ce n’è molto poco in generale. Io, invece, avevo un altro sogno: volevo diventare un maestro. Quindi, quando un giorno, a sedici anni, il mio amico Amadou mi disse di aver preso la decisione di venire in Europa, io mi unii a lui, senza stare molto a pensarci: dopo qualche giorno gli dissi che sarei andato con lui! Senza dire nulla ai miei genitori, mi misi in viaggio verso la frontiera, prima a piedi, poi con qualche passaggio di fortuna in auto o in camion. Io avevo con me i miei documenti, ma, essendo minorenne, non potevo uscire senza un genitore; quindi, fin da subito, ho viaggiato da clandestino. Ho attraversato prima il Mali, poi la Nigeria e alla fine sono arrivato in Libia.”

Come è stato il tuo viaggio?
“È stato molto lungo e travagliato. Ho attraversato anche il deserto per un tratto. Ma la stanchezza che in certi momenti ho avvertito è stata meno intensa della paura che avevo. Quando ti metti in viaggio, sai che potresti non tornare. Io cercavo di non pensarci, ma c’è stato un momento in cui mi sono sentito veramente scoraggiato. È successo mentre eravamo in Libia, quando l’amico con cui ero partito, Amadou, è morto. La vita da clandestino non è affatto bella. Molti pensano che un clandestino sia libero di fare quello che vuole, di andare dove vuole; invece non è affatto così. Si vive con il fiato sul collo, avendo come compagna di viaggio solo la paura: la paura di essere presi, la paura di non farcela e di essere rispediti a casa, la paura di morire per una sciocchezza. Proprio come è capitato al mio amico, che ha avvertito un forte mal di pancia e che forse si sarebbe salvato con delle cure, ma che ha deciso di non recarsi all’ospedale per evitare i controlli ed essere rispedito a casa. Così ha trovato la morte. Non dimenticherò mai la sua amicizia e il coraggio che mi ha dato. Giunto sulla costa libica, quindi, mi sono ritrovato da solo, ma ormai solo il mar Mediterraneo mi separava dall’Europa, vedevo la meta vicina e non potevo abbandonare il mio progetto. Tra una località e l’altra, io ed Amadou ci eravamo fermati più volte per fare qualche lavoro in modo da mettere da parte il necessario per affrontare un altro pezzo di strada. E così ho fatto anche in Libia. Anche se ero clandestino, infatti, potevo tranquillamente lavorare, perché in Africa non esistono i contratti come in Italia: chi ha voglia di fare qualcosa, si presenta sul posto di lavoro e, se il capo di turno acconsente, inizia subito a lavorare. Nel mio caso ero giovane e pieno di energie, insomma un tipo di lavoratore molto richiesto, quindi ho fatto subito ad ottenere ciò che volevo e, appena si è creata l’opportunità, sono salito su una barca che mi ha portato fino in Italia a Lampedusa. Devo dire che, una volta salito sulla barca, non ho avuto più paura. Vedevo finalmente ripagati tutti i miei sacrifici! Inoltre mi sono sentito anche meno solo: sulla barca, infatti, eravamo in tanti, quasi tutti uomini di tante nazionalità diverse e poche donne, tutte nigeriane. Nonostante fosse inverno, fortunatamente è andato tutto bene.”

Cosa hai fatto qui in Italia in questi cinque anni?
“Appena sono arrivato, mi sono sentito subito accolto: mi hanno dato abiti e cibo. Sinceramente facevo fatica a crederlo! Ero molto contento e ho pensato che questo fosse l’inizio di una nuova vita. Invece, ben presto, mi sono reso conto che non potevo muovermi, non potevo neanche cercare un lavoro e dovevo rispettare orari e regole in cui non mi ritrovavo, perché erano molto diverse da quello che io avevo vissuto fino a quel momento. Del resto avevo sedici anni e non ero ancora maturo; perciò, seguendo anche altri ragazzi più grandi con cui avevo fatto il viaggio, dopo appena due settimane, sono scappato e sono tornato di nuovo a fare la vita da clandestino qui in Italia. Sono giunto a Milano, poi sono tornato indietro in direzione di Pescara, ma il mio biglietto era pagato fino ad Ancona e, quando il controllore mi ha fatto scendere, mi sono ritrovato alla stazione di San Benedetto del Tronto. Questa città è stata una vera fortuna per me. Prima, infatti, mentre ero seduto su una panchina della stazione, ho conosciuto un mio connazionale che all’epoca aveva il doppio dei miei anni e mi ha trattato con tanto affetto, facendomi capire che stavo sbagliando a fare quella vita. Poi, qualche giorno dopo, mi hanno fermato i carabinieri e, anziché trattarmi con durezza, hanno capito che non avevano di fronte un delinquente, ma solo un ragazzo spaventato: mi hanno spiegato che, essendo minorenne, avrei dovuto prima studiare e poi lavorare. Così, un po’ alla volta, ho conosciuto delle persone italiane veramente speciali, come i coniugi Mila ed Antonio, la mia tutrice Nicla, la signora Anna, la professoressa Helena, il nostro direttore don Gianni e poi Elisabetta, Edoardo, Marco, Lorenzo, le suore e i tanti amici della Caritas. Essendo minorenne, prima sono stato ospite in una casa famiglia per due anni, e mi sono impegnato per ottenere il Diploma di Scuola Media. Poi, compiuta la maggiore età, non avendo un’altra dimora, sono venuto qui in Caritas e mi è stata data la possibilità di studiare e lavorare. Ora sto frequentando la scuola serale dell’Istituto Alberghiero: ho fatto il programma di quattro anni in due, quindi quest’anno ho terminato il quarto anno e devo frequentare solo l’ultimo anno e poi fare la maturità. Nel frattempo qui in Caritas sto facendo lo stage per ottenere i crediti per il quinto anno, mentre al ristorante Viniles lavoro per avere uno stipendio. Non mi resta molto tempo per altre cose, considerando che studio e faccio due lavori. La mattina lavoro come aiuto cuoco alla mensa della Caritas dalle 9:00 fino alle 13:00 circa. Nel pomeriggio, dalle 15:00 alle 17:00, studio sempre e, in alcuni giorni, frequento anche lezioni di recupero di italiano e matematica. Dalle 17:00 in poi mi reco al Viniles dove lavoro fino a tardi. Di solito, durante la notte, alle 3:00, mi sveglio per pregare. Io sono musulmano e rispetto questa regola. Quindi non faccio molte altre attività, oltre a queste. Nel poco tempo libero leggo, prego o vado in centro a passeggiare.”

Come ti trovi qui in Caritas?
“Qui in Caritas sto bene. Non c’è differenza di colore o di religione. L’importante è comportarsi bene. E questo vale per tutti. Questo è un luogo di rispetto, di condivisione e anche di amicizia.”

Come e dove vedi il tuo futuro?
“Questa è una bella domanda! Qui in Caritas sono cresciuto, sono diventato più maturo ed ho anche capito di essere molto legato alle mie origini. Ho compreso che non posso cambiare le mie radici, la mia religione e le cose in credo; ma devo rispettare le regole del paese che mi ospita e devo rispettare tutti, anche quelli molto diversi da me, accettandoli ed accogliendoli così come sono, nella stessa maniera in cui gli altri hanno accolto me. Per quanto riguarda il presente, il mio impegno è tutto orientato a terminare gli studi e ad essere autosufficiente a livello economico. Voglio farcela da solo. Per il futuro non sono sicuro. Infatti, anche se ora sto bene qui in Italia, devo essere onesto nel riconoscere che vivere in un luogo diverso da quello in cui si è nati, non è semplice, perché ti sembra di non avere una patria. Io l’ho vissuto sulla mia pelle. Qui in Italia sono diverse le tradizioni, le abitudini culinarie e comportamentali, anche il modo di relazionarsi tra le persone. In Senegal, ad esempio, non è contemplato che una ragazza si proponga ad un ragazzo; qui in Italia invece mi capita spesso. Dall’altro lato, però, l’unica volta che sono tornato in Senegal, mi sono reso conto di aver imparato alcune cose e di aver preso alcune abitudini dell’Italia che mi rendono diverso dai miei connazionali senegalesi. Allora ho maturato l’idea che la cosa migliore per il mio futuro sia portare nel mio paese il meglio di quello che ho imparato qui. Mi piacerebbe tornare in Senegal ed aprire una scuola. Vorrei dare ai bambini della mia terra d’origine le possibilità che io non ho avuto. Se fosse possibile, infatti, vorrei che nessuno vivesse quello che ho passato io. Sarebbe bello per il mondo intero, se ogni bambino che nasce avesse le stesse opportunità e le stesse risorse.”