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Dal Gambia a San Benedetto, la storia di Samba, giovane rifugiato che ora studia all’università

SAN BENEDETTO DEL TRONTO – Spesso ci occupiamo della nostra Caritas Diocesana, raccontando le belle iniziative che organizza e le opportunità che riesce a fornire ai suoi ospiti. Oggi, però, vogliamo parlarne da un altro punto di vista, non con l’occhio di chi vi opera dall’interno, bensì con l’occhio (e il cuore) di chi invece è ospitato nella struttura. Inauguriamo questa nuova rubrica con la storia di Samba, un giovane di 24 anni, giunto dal Gambia in Italia nel 2016, appena maggiorenne.

Raccontaci un po’ di lei …
Sono stato costretto a lasciare il mio paese per un problema di salute: avevo, infatti, una gamba malata che nel mio paese non era curabile. Ho deciso perciò di andarmene per trovare una cura alla mia malattia. Ho affrontato un lungo viaggio. Prima di tutto ho attraversato il deserto, poi la Libia ed infine il mare, giungendo in Italia a Lampedusa. Dopo qualche giorno sono stato mandato per un po’ a Lecce e poi qui a San Benedetto del Tronto. Spesso questi avventurosi e pericolosi spostamenti vengono chiamati viaggi della speranza e, nel mio caso, il termine è proprio giusto, perché quella che io cercavo era proprio la speranza di vivere una vita diversa, non più da ragazzo invalido destinato a non poter fare molto nella vita, bensì da giovane uomo che voleva scegliersi il proprio futuro.

Cosa ha fatto qui a San Benedetto del Tronto?
Quando sono arrivato in questa bellissima città, non avevo amici né parenti e non avevo più nulla per potermi mantenere. Sono arrivato qui con tanti sogni in tasca, ma anche con tanta amarezza, delusione e paura. In Caritas ho ricevuto una buona accoglienza per i miei bisogni materiali, ma soprattutto ho trovato il sostegno per andare avanti e non arrendermi. Ho iniziato a frequentare l’Istituto Alberghiero e lo scorso anno mi sono diplomato. Poi mi sono iscritto alla Facoltà di Scienze Infermieristiche e contemporaneamente mi sono iscritto anche ad un corso di Mediazione Interculturale.

Come si trova qui in Caritas?
Negli anni ho stretto amicizia con tante persone che, come me, provengono dall’estero: Gambia, Senegal, Tunisia, Marocco, Guinea … Vivo con persone di diversi paesi e diverse culture. Ogni mattina qui in Caritas ognuno si sveglia e inizia a fare il proprio dovere: chi va a scuola, chi va a lavoro, chi aiuta le Suore nelle faccende domestiche. Al momento siamo dodici ragazzi di varie nazionalità, oltre a due donne ucraine e due italiane. Come in qualsiasi altro gruppo, con alcuni è nata una vera e propria amicizia e con tutti c’è sempre molto rispetto: ognuno, infatti, ha la sua storia, le sue radici, le sue abitudini, il suo carattere. Nessuno può sapere cosa ci sia nel cuore degli altri, quante volte sia stato ferito e quante volte abbia dovuto ricominciare da capo per raggiungere un obiettivo. In particolare con Manuel, Alessandro e Sara ho svolto il mio anno di servizio civile e si è creato un bel rapporto di amicizia che continua anche ora: ci frequentiamo, andiamo a mangiare la pizza insieme e soprattutto parliamo tanto. È importante avere questo dialogo con qualcuno che è tanto diverso da te, perché ti spiega le cose da un altro punto di vista, ti apre gli occhi, ti fa capire cose che da solo non comprendi pienamente.ù

Come e dove vede il suo futuro?
Prima di tutto desidero laurearmi. Questo è stato il mio obiettivo da sempre, quindi ha la priorità su qualsiasi altra cosa. Poi non so se resterò in Italia o in Gambia. Da un lato vorrei tornare nel mio paese d’origine per rivedere i miei cari e portare la mia esperienza a casa. Ora comunico con loro solo attraverso i social, ma mi piacerebbe riabbracciare mia madre, mia sorella e mio fratello. Mi mancano molto! Dall’altro lato, però, dell’Italia mi piace molto l’ambiente, il modo di vivere, la gentilezza delle persone e soprattutto le libertà che avete. Da noi un ragazzo non può scegliere se andare a scuola né eventualmente quale tipo di scuola: poiché non ci sono molte possibilità, è la famiglia che decide chi tra i figli merita di avere quell’opportunità. Le ragazze, poi, sono ancora più penalizzate: a diciassette anni devono iniziare a pensare alla vita matrimoniale, quindi devono fidanzarsi con un uomo che spesso è imposto dalla famiglia, e assolutamente non hanno accesso all’istruzione. Se tornassi per sempre in Gambia, non so che tipo di vita potrei dare ai miei figli. Inoltre, se lasciassi per sempre l’Italia, mi mancherebbero i miei amici. Purtroppo per me – e per tutti quelli che hanno una storia simile alla mia – esiste una doppia vita: quella prima e quella dopo; farle coesistere è quasi impossibile. A volte penso di avere una doppia patria, altre volte di non averne neanche una. Forse sto solo aspettando qualcuno che mi aiuti a decidere …