foto SIR/Marco Calvarese

Di Marco Testi

Dialogo è la prima parola che viene in mente alla fine della lettura di questo “Chiesa sesso amore” di Gilfredo Marengo (San Paolo, 213 pagine, 20 euro).E dialogo non vuol dire cedimento, ma capacità di incontro tra diverse visioni del mondo, e più in particolare dell’amore e del matrimonio.Le mutazioni della concezione dell’amore e della sessualità hanno portato infatti ad un incontro-scontro tra una visione del matrimonio legata prima unicamente alla procreazione e quella che vede nel sesso una dimensione assolutamente libera e sovrana. Marengo, sacerdote, insegna Antropologia teologica al Pontificio istituto teologico Giovanni Paolo II per le Scienze del matrimonio e della famiglia, a Roma, la prende da lontano, quella concezione in cui il sesso era visto unicamente come mezzo di riproduzione. Richiamando quel dibattito sul peccato originale ripreso dal dualismo gnostico e manicheo che vedeva nella materia il regno del dio del male (che avrebbe quindi creato il mondo) e nella sessualità proprio l’origine di quel peccato e della cacciata dall’Eden.La ripresa delle antiche strade compiuta dall’autore è affascinante, perché ci fa vedere come il mondo fuori da quello strettamente cattolico sia a sua volta cambiato e spesso tributario di mode.Basti pensare ad alcune posizioni romantiche, come quella dello Iacopo Ortis di Foscolo e prima ancora del Werther e delle Affinità elettive di Goethe che affrontavano la dimensione inquietante di un amore divenuto padrone assoluto dell’esistenza. E fonte, paradossalmente, di solitudine e morte.Il principale merito di questo libro è quello di tentare la rimozione della dicotomia eros-agape– e la suggestione di un cristianesimo non solo come tradizione, ma anche come novità rispetto ai tempi consumistici, soprattutto a livello sessuale, è qui molto forte – in favore di un nuovo accordo tra i sessi e all’interno di una Chiesa assai attenta alla questione dell’unione tra uomo e donna, soprattutto con Giovanni Paolo II e con Francesco; tenendo conto, come Marengo fa, della drammatica situazione di passaggio tra tradizione e contestazione con cui dovette fare salati conti Paolo VI. La liberazione della sessualità dai preconcetti di qualsiasi tipo va di pari passo con la consapevolezza che la commercializzazione del sesso e la sua riduzione a cosa sono elementi assai pericolosi e dannosi, in un cammino di libera scelta e di condivisione del bene e del male.Il rischio che “Chiesa sesso amore” mette bene in evidenza è quello di un “amore” che duri quanto la salute, la gioventù, la muscolatura scolpita.E che poi lasci posto, come accade sempre più frequentemente, alla ricerca di qualcuno – o forse sarebbe meglio dire qualcosa – di più: più bello, più aitante, più affascinante, più all’altezza dei tempi. Un libro questo che ci aiuta a camminare con l’amore e anche a riconsiderare la sessualità non più solo come potenziale peccato, ma come ricerca e armonia con l’altro.

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L’amore è stato da sempre al centro di tutta l’arte umana, da quella figurativa alla poesia.Il romanzo per eccellenza, incubo degli studenti e miniera di ricerche per gli studiosi, della nostra letteratura, “I promessi sposi”, ne è una prova.

Solo che quella pagina finale, che conclude apparentemente il romanzo:

“Dopo un lungo dibattere e cercare insieme, conclusero che i guai vengono bensì spesso, perché ci si è dato cagione; ma che la condotta più cauta e più innocente non basta a tenerli lontani; e che quando vengono, o per colpa o senza colpa, la fiducia in Dio li raddolcisce, e li rende utili per una vita migliore. Questa conclusione, benché trovata da povera gente, c’è parsa così giusta, che abbiam pensato di metterla qui, come il sugo di tutta la storia”.

spesso è stata travisata.

Lieto fine, secondo molti,quando invece si tratta dell’accettazione delle sfide del male, di un sostanziale pessimismo sulla capacità dell’uomo di resistere,che veniva probabilmente dal giansenismo, ma anche dal riconoscimento di come l’uomo possa resistere a quel male attraverso rinunce e sacrifici. Anche perché Manzoni, quel male (la superbia, la sopraffazione, il piacere per il piacere, costi quel che costi, la violenza gratuita) lo conosceva bene. Prima della conversione, che non è stata così fulminea come si crede comunemente, Alessandro era stato, sembrerà strano a dirsi, un ragazzetto scapestrato, tanto che lo stesso suo idolo, Vincenzo Monti, aveva dovuto redarguirlo, in un loro incontro, per il vizio del gioco. E non solo: in odio alla severa morale dei padri Somaschi presso i quali aveva studiato, il giovane rampollo si era imbevuto di cultura illuministica e materialistica e di idee fortemente laiche, se non anticristiane. E probabilmente gli erano passate per le mani letture che andavano molto in quegli anni, quelle dei libertini, ad esempio De Sade, ma anche Laclos e il libretto del Don Giovani di Da Ponte, musicato da Mozart. Per tacere di una delle fonti per la figura di Gertrude, “La monaca” di Diderot.Insomma conosceva, forse anche per esperienza diretta, la dimensione del male per il male.E nel suo capolavoro, pochi lo hanno notato, ci sono profonde, laceranti testimonianze di questo male assoluto e gratuito: basti pensare al don Rodrigo che vuole sedurre Lucia solo per una scommessa, o all’Innominato di prima della conversione.È che il capolavoro della narrativa italiana è tale proprio per questa abissale conoscenza del male e per il coraggio di porvi come argine non dotti, intellettuali, potenti, uomini di chiesa, ma due persone comuni.Il male non è solo voluto, scrive Manzoni, ma talvolta arriva senza che noi abbiamo fatto alcunché per chiamarlo. E allora non c’è rimedio? Il rimedio è la resistenza, il coraggio di dire no a quella chiamata – Lucia è fatta prigioniera ma non cede al fascino ambiguo di quel male –; la responsabile del suo rapimento, la Monaca di Monza, è il suo apparente opposto: la sua bellezza è altera, orgogliosa, ma anche memore della violenza di una monacazione forzata, mentre quella di Lucia è umile, non ostentata, con richiami, come ha notato Angelo Pupino, alla figura mariana.

No, il classico manzoniano non è un romanzo a lieto fine:è l’inizio di una nuova vita, con tutte le sue sfide e i suoi rischi. E le sue speranze.

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